È in scena dal 23 al 26 marzo allo Studio Argot di Roma Leopold – la giornata di un uomo qualunque, uno spettacolo che porta la firma (ed anche il volto e la voce) di Maurizio Panici, attore, regista e padre dell’Argot Studio. Recensito ha partecipato alla prima di questo spettacolo che si inserisce all’interno del progetto Ulysses 100 che celebra i 100 anni della pubblicazione dell’Ulisse di James Joyce. Lo Studio Argot ha infatti deciso di rendergli omaggio, realizzando due intensi monologhi ispirati ai due personaggi principali del testo dell’autore irlandese: Leopold e Molly B, personaggio interpretato da Iaia Forte nel monologo andato in scena dal 16-19 marzo 2023.
Abbiamo raggiunto telefonicamente l’attore Maurizio Panici per approfondire i temi legati al suo spettacolo ed in particolare cosa ne ha ispirato l’ideazione, passando per la musica ed il mondo dei social network. Ecco quello che ci ha raccontato.
Il titolo del suo spettacolo è Leopold – la giornata di un uomo qualunque ed il protagonista è lo stesso dell’Ulisse di Joyce. Il progetto si inserisce all’interno del cartellone di eventi del Teatro Studio Argot intitolato La Fabbrica Dei Sogni. Ed infatti la scrittura di Joyce con il suo “flusso di coscienza” è sempre stata associata alla dimensione onirica. Come nasce questo progetto? Cosa l’ha ispirata?
“Il progetto è nato tempo fa ed in particolare durante il periodo della pandemia. Nasce da una necessità personale e intima di riflettere non solo sulla mia condizione (anche di artista), ma di mettermi anche in relazione con il mondo che stava cambiando. Ho sfruttato tutto quel tempo a disposizione, per lavorare sull’Ulisse di Joyce (che è un’opera immane!) ed elaborarlo riuscendo a creare un lavoro nel quale riuscivo ad immedesimarmi. Sentivo la necessità di ricondurre il lavoro di Joyce all’interno di un’unità di tempo e spazio, che mi permettesse di garantire anche una dimensione teatrale. Ho deciso quindi di partire da una giornata ideale vissuta da Leopold - il protagonista dell’Ulisse - un personaggio mitico, che incrocia anche il protagonista del Libro delle Inquietudini (Bernardino Soares) di Fernando Pessoa di cui ho scelto di inserire anche dei brevi inserti: due personaggi molto simili nei quali mi riconosco profondamente. Due uomini che si ritrovano spiazzati dalla realtà che li circonda, che vivono un senso di spaesamento, lo stesso che ho vissuto anche io, isolato e senza la possibilità di tornare sul palcoscenico. Ho deciso quindi di ricostruire con Leopold un nuovo mondo e ricostruirlo dall’interno: quindi non più l’immagine della realtà e di quello che ci circonda, ma un mondo trasmutato attraverso un’operazione artistica, profonda e intima che è lo stesso che immagina Leopold con i suoi sogni e desideri, sono le sue altezze ma anche le sue cadute: questo da’ un quadro che si adattava alla mia esigenza personale”.
Nel suo spettacolo infatti, si sente la differenza tra il testo di Joyce e quello di Pessoa proprio perché sono due modi di scrivere completamente diversi ma emerge, come ha anche detto lei, la complessità dello spirito umano e della persona stessa che in questa giornata si ritrova a vagare tra i suoi pensieri, descrivendoli minuziosamente, come nel caso delle sue amanti.
“Esatto! Quello di Leopold infatti, è un percorso minuzioso di memoria che diventa anche evocativo: non è esattamente una foto del reale ma è tutto quello che ha assorbito di Gerty MacDowell, in questo caso. Lui l’ha assorbita completamente e ce la restituisce attraverso questa sua descrizione minuziosissima: quasi quasi ce la fa toccare con mano lì sul palcoscenico! E questo processo lo utilizza anche con i luoghi, come ad esempio per la birreria che frequenta abitualmente o con il negozio dove lui va a sognare. Di questa realtà gli piace molto il cibo perché lo riporta un’idea di carnalità ed è una realtà che riesce a riconoscere, mentre non ci riesce per altre. Lo stesso smarrimento lo ritroviamo in Bernardino Soares, che invece vive tutto all’interno di un ufficio senza mai uscire. Sono due mondi claustrofobici che hanno bisogno di sognare ed inventare la realtà. Come dice Pessoa «le mie sono divagazioni indispensabili per un cervello che si smarrisce e io mi ritrovo soltanto raccontando perché è l’unica cosa che so fare» e questo ha che fare molto con il nostro lavoro di attori perché sappiamo solo raccontare…E se ci perdiamo la narrazione non esistiamo più”.
In base anche a quanto lei ha affermato, possiamo dire che si sente un po’ più vicino al personaggio di Pessoa rispetto a Leopold? Anche se si tratta di due figure molto analoghe, che vivono di ricordi in un momento di smarrimento.
“Non ho una propensione per l’uno o per l’altro: in realtà i due convivono in me perfettamente. Di Leopold ho questa necessità di cose concrete, reali, degli odori, dei sapori; di Bernardino ho invece la parte intima, profonda, di riflessione: è come se le due cose si fondessero perfettamente insieme. Uno vede, sogna, tocca con mano le cose che vede e che vive, l’altra parte riflette su tutto questo: è come parlare con il suo alter-ego”.
Avendo curato anche la regia dello spettacolo, quanto è stato complicato per lei riuscire ad unire questi due testi con la scenografia digitale?
“Beh, il lavoro di scenografia era necessario per dare una forma ai pensieri di Leopold ed è stato fatto da Davide Stocchero che ha realizzato i disegni man mano che scrivevo il testo. Ci siamo confrontati per diverso tempo prima di arrivare ad una forma definitiva del racconto, partendo dalla line art sino ad arrivare ad un distillato profondo delle immagini che accompagnavano perfettamente le parole”.
Abbiamo percepito da questo spettacolo un’ambivalenza tra passato e presente che emerge anche dalla musica. Joyce e Pessoa convivono con un brano dei Joy Division e una canzone di Vasco Rossi che apre lo spettacolo.
“Ha colto perfettamente perché questo è proprio un viaggio che parte dalla grande letteratura del 900 sino ad arrivare ad oggi. Partiamo da due tra gli autori più importanti di quel secolo, come Pessoa e Joyce, e ci trasferiamo piano piano verso il tempo presente - il tempo in cui vivo - attraverso la musica dei Joy Division un gruppo molto particolare, molto amato, dal sound riconoscibile e molto forte. Soprattutto va a sottolineare il momento in cui viene proiettata la scena di un funerale in Peaky Blinders, ed è come se Leopold arrivasse alla sua morte guardandosi. È molto joyciano anche questo!”.
Quindi come sono state scelte le altre musiche che hanno accompagnato le scene? Al di là dei Joy Division c’era anche una musica un po’ più elettronica o anche delle melodie più arabeggianti, orientali.
“Sono anche le musiche che mi hanno accompagnato nel tempo del covid. Molte vengono da alcuni album di Buddha Bar ed è un distillato di musiche che sono un sincretismo tra poesia e elaborazione musicale: sono paesaggi sonori. L’ultima musica ad esempio, è una musica sufi: una poesia che parla della vita e del movimento ed è stata musicata in una maniera mirabile per questo l’abbiamo utilizzata così com’è. Si sposava perfettamente anche con l’ultimo pensiero che poi è quello di Pessoa. Anche qui, ancora una volta, vecchio e nuovo camminano insieme sempre e comunque perché il segreto di tutto lo spettacolo, secondo me, sta in questo sincretismo culturale dove c’è la letteratura, la poesia, il sapore ed il gusto musicale. Oppure Vasco Rossi che racconta con i suoi versi, lo stato fisico del protagonista: “siamo qui” come degli ultimi eroi, praticamente. Diciamo che la parola più giusta che ha dato questa speciale unione a tutto, è stata la cura che ho messo in tutto e questo è stato possibile perché avevo tantissimo tempo a disposizione. Leopold nasce non perché dovevo fare uno spettacolo, ma nasce da una necessità profonda di metabolizzare pienamente l’opera e restituirla. Quindi è sì uno spettacolo ma, prima di ogni altra cosa, è un lunghissimo viaggio emotivo, poetico, musicale, visivo. E tutto questo ha avuto una grandissima cura che mi ha permesso di restituirlo con una pienezza che, molte volte, quando sei sollecitato dai tempi di produzione, non ti puoi permettere”.
Soprattutto un viaggio dentro di lei che cerca di esorcizzare questi due anni. Possiamo quindi dire che, sia lei che Joyce, siete tornati a casa? Perché nell’ottobre del 1984, quando ha inaugurato lo studio Argot, è stato messo in scena uno spettacolo dell’autore irlandese.
“Si. Lo spettacolo di allora si chiamava Fluidofiume ed era di Enrico Frattaroli e di Estravagario Teatro ed inaugurò ufficialmente la nascita di Argot Studio. Leopold è tornato da quel viaggio che non si è mai interrotto… e siamo ormai ai quarant’anni! In questi anni Leopold ha visto cose e, piano piano, è tornato a casa, come è stato anche per Ulisse: è il nostos, il viaggio di ritorno. Anche io sono tornato a casa fisicamente ed ho trovato una platea di gente sconosciuta ma piena anche di gente che ri-conoscevo, che conoscevo di nuovo. E poi c’era tutto l’Argot Studio che considero come i miei figli, i miei amici di sempre: è una casa a cui devo molto. E questo “continuare il viaggio” secondo me, è importante: l’Argot Studio deve continuare con una politica sua, nuova ed autonoma ma che abbia questa memoria, rimanendo un punto fermo per la città di Roma e per tutta l’Italia, come sistema teatrale. È proprio tornare a casa, nel senso pieno del termine”.
L’anno prossimo, come lei stesso diceva, l’Argot Studio compie un compleanno importante. Le facciamo una domanda un po’ azzardata: sta già pensando a qualche “festa” da fare?
“Ci penseranno i ragazzi, è compito loro! L’anno prossimo si daranno degli obiettivi importanti e noi parteciperemo sicuramente in qualsiasi forma soprattutto con il cuore, standogli vicino”.
Nonostante siano passati cento anni dalla pubblicazione dell’Ulisse ed il testo di Pessoa è stato scritto nel 1982, per i temi che vengono trattati lei li considera ancora attuali?
“Assolutamente, perché l’uomo è sempre lo stesso: le passioni, i desideri, le delusioni sono sempre le stesse. Infatti stiamo parlando de “la giornata di un uomo qualunque” quindi sono attualissimi e lo saranno sempre. Sono i grandi testi che sanno raccontare l’animo umano nella profondità delle espressioni”.
In merito allo spettacolo, ho letto delle frasi che mi ha colpito molto: “Non sapremo mai quanto sia vera questa realtà abitata dall’eroe, o semplicemente una proiezione di questa nostra realtà, dove nonsi distinguono più i contorni del reale e dove nella libertà di esprimere tutto quello che pensiamo, i confini tra le due dimensioni sono estremamente labili.” Questa riflessione mi ha fatto pensare alla nostra epoca e, soprattutto, a quello che è il mondo dei social network dove soprattutto i ragazzi più giovani, non riescono più a distinguere questo labile confine tra la vera realtà e la loro percezione di realtà (completamente finta) filtrata dai social. Cosa ne pensa?
“Beh, è una riflessione assolutamente necessaria perché all’inizio i social sono stati una scoperta. Adesso stiamo scoprendo che è una realtà pericolosa che ci propone anche una realtà immaginaria. Tutta questa felicità espressa poi in realtà nasconde - ed ogni tanto questo esplode - un malessere profondissimo. Cioè, noi stiamo delegando a qualcuno che non esiste una vita che non ci appartiene: questo è terribile. Mentre in Leopold o in Bernardino è un sogno innocente, qui purtroppo delle volte questi sogni si trasformano in incubi e quindi bisogna porre molta attenzione”.
E a tal proposito qual è la relazione con i social per il Maurizio attore e soprattutto il Maurizio “uomo qualunque”?
“(Ride) Maurizio uomo qualunque non ha un profilo social, su nessun canale! Abbiamo un profilo, che ogni tanto guardo, ma è per lavoro ovvero quello di Argot Produzioni. Personalmente non ho nessun tipo di rapporto e preferisco la realtà, la letteratura che mi circonda, preferisco ascoltare buona musica, insomma… mi tengo abbastanza distante. Osservo il fenomeno perché è importante non posso condannarlo né negarlo, ma ne riconosco anche le pericolosità ed i limiti”.
Roberta Matticola, Alessandra Miccichè 24/03/2023