In occasione delle repliche romane previste al Teatro Tordinona dal 28 marzo al 2 aprile 2017 dello spettacolo “Elettra, biografia di una persona comune”, abbiamo intervistato l’ideatore e regista, Nicola Russo, uno degli autori più giovani e prolifici del teatro contemporaneo.
Che cosa l'ha colpita della storia di Elettra Romani, al punto da dedicarle un'intera opera?
“Elettra Romani è stata una ballerina, una soubrettina e poi un'attrice di avanspettacolo. Mi sono avvicinato a lei con l'intenzione di registrare una testimonianza diretta sull'avanspettacolo, genere di spettacolo sparito, mi sembrava interessante raccogliere materiale direttamente da un'artista che ha vissuto per decenni in quel mondo. Parlando con Elettra poi mi sono accorto di come i racconti professionali si intrecciassero inevitabilmente ai racconti privati. Elettra ha avuto una vita molto intensa, orfana di madre ha vissuto un'infanzia priva di affetti, è stata ragazza madre negli anni '40, ha abbandonato sua figlia per l'impossibilità di mantenerla e per inseguire il suo sogno di spettacolo, ha vissuto la fame, la miseria, ha conosciuto grandi successi e grandi fallimenti sia nella sfera privata che professionale. Mi sono ritrovato fra le mani un materiale umano incredibilmente prezioso veicolato dalle parole di Elettra e un materiale di repertorio interessantissimo composto da canzoni, monologhi, sketch, ripescati dalla sua memoria. È proprio l'intreccio di questi due materiali, privato e professionale, che mi ha spinto a scrivere e a mettere in scena "Elettra, biografia di una persona comune".
Lo spettacolo nasce nel 2010. Dopo questi anni, e dopo molteplici repliche, è cambiato qualcosa? In che modo?
“Elettra, biografia di una persona comune è nato da una collaborazione con Sara Borsarelli, ma è stato replicato anche con Laura Mazzi e ora rivede tornare sul palco Sara. Dal 2010 abbiamo replicato lo spettacolo in diversi contesti, stagioni teatrali, festival, l'ho anche messo in scena in inglese ad Amsterdam con una compagnia di attori olandesi e come è naturale che sia ogni volta lo spettacolo cresce, si modifica, ti permette di concentrarti su nuovi particolari. È una bella occasione quella di avere la possibilità di replicare per così tanti anni lo stesso spettacolo, ti rende cosciente di una delle specificità del mezzo teatrale, che è la ripetizione, con tutto ciò che ne consegue. Per me è molto importante dare vita agli spettacoli nel tempo, e dare vita non significa solo produrli ma continuare a portarli in scena e confrontarsi con pubblici diversi. Credo che solo in questo modo uno spettacolo possa veramente crescere e trovare la sua identità”.
Esiste un filo rosso, tra questo “Elettra” e quei suoi lavori che affrontano la storia e le esperienze di altre grandi artiste? Ricordiamo il più recente “Nina (Montreux 1976)”, dedicato a Nina Simone, ma anche a “Physique du rôle” ispirato a Sophie Calle.
“Il lavoro di Sophie Calle "L'hotel" è stato la base di partenza e ha fornito il contesto per il mio spettacolo "Physique du rôle". Ne "L'hotel" Sophie Calle si finge una cameriera d'albergo per spiare le camere e archiviare informazioni ricostruendo, attraverso un elenco di oggetti ritrovati e di comportamenti, una possibile identità di chi occupava la camera. Non vedendo mai la vera fisicità della persona che sta spiando, Sophie Calle instaura un meraviglioso meccanismo di fantasia e di libertà, permettendoci di mettere in quei panni chiunque vogliamo, qualunque tipo di corpo il nostro immaginario ci suggerisca.
Il mio ultimo lavoro “Nina (Montreux1976)” racconta il concerto che Nina Simone tenne al Montreux Jazz Festival nel 1976 dal suo punto di vista e per me è uno spettacolo speculare ad Elettra. In Elettra racconto la biografia di un'artista non conosciuta, in “Nina” facciamo esattamente l'opposto: un lavoro su una donna di spettacolo famosa di cui non raccontiamo la vita ma i pensieri durante una specifica performance.
La cosa in comune a molti miei lavori è la riflessione sul Physique du rôle. Il teatro per me è occasione di libertà, un luogo in cui possiamo permetterci di aggirare le apparenze per far parlare qualcosa di più profondo e necessario. Così qui ci siamo permessi di prendere in prestito le sue parole e farle nostre interpretando noi in prima persona Elettra, perché erano tanti i punti di incontro della sua sensibilità con la nostra al di là dell'età, del sesso e dell'aspetto fisico. In “Nina” ho cercato di fare la stessa cosa con un'attrice (Sara Borsarelli) che aderisse in primo luogo a un certo modo di occupare un palcoscenico, che mi restituisse una particolare qualità dello stare sulla scena che rendeva speciale la presenza di Nina Simone, una qualità del pensiero, andando oltre l'aspetto fisico, il colore della pelle e qualunque tipo di virtuosismo. Perché quello che trovo interessante nel lavoro di un attore non è la bravura ma proprio la capacità di creare dei ponti tra il proprio mondo e quello del personaggio che rappresenta”.
Elettra Romani è stata, a partire dagli Anni '40, un'importante figura dell'avanspettacolo, di un teatro, per dir così, "leggero”. Esiste secondo lei oggi qualcosa di paragonabile a quella realtà?
“Non credo esista più qualcosa di paragonabile. Ci sono sicuramente forme di intrattenimento "leggero" che derivano direttamente dall'avanspettacolo soprattutto nella forma, ma è cambiato il contesto, il pubblico di riferimento. L'avanspettacolo era un contenitore di molte forme d'intrattenimento diverse, qualcosa di simile possono essere i varietà televisivi ma mancano sicuramente del contatto col pubblico, e il contatto con il pubblico, diretto e spesso brutale, era una caratteristica fondamentale dell'avanspettacolo. Un ponte tra l'avanspettacolo di cui mi ha parlato Elettra Romani e un certo tipo di teatro che facciamo oggi a me sembra possa essere una specie di passione disperata e necessaria che ci fa andare avanti nonostante le difficoltà. Sono consapevole che le difficoltà economiche non siano paragonabili: chi faceva l'avanspettacolo soprattutto negli anni '40 e '50 spesso viveva situazioni di grande miseria, di fame, di estrema povertà, noi in confronto, pur lavorando in tempi difficili, siamo dei privilegiati. Credo però che, fatte le debite distinzioni, un punto in comune si possa proprio trovare nell'ostinazione e nella passione che in fondo, in un momento di crisi, sono davvero le uniche cose che possono portarci avanti nel nostro fare teatro”.
Sacha Piersanti 27/03/2017