È da poco uscito “Pietro Pan. Memorie di un perdigiorno” il libro di Nicola Pecci nato dall’omonimo spettacolo che, con Gaia Bigiotti, ha debuttato lo scorso anno sul palcoscenico del Teatro di Rifredi di Firenze. Al centro della vicenda, sempre Pietro Pandolfi, un musicista 45enne che pensa di essere il più grande talento incompreso della musica di tutti i tempi, incapace di vivere la sua vita, almeno fino a quando non incontrerà Lana, una sedicenne ribelle. Da quest’incontro molte cose cambieranno: un viaggio, un rapporto profondo, confessioni, ricordi, limiti da superare, sogni. Abbiamo provato a chiedere al cantante e attore pratese qualcosa di più di questa nuova esperienza che si è mutato nella “forma” ma non nei contenuti.
Parlaci del tuo nuovo libro: quali sono i temi e che tipo di struttura ha?
Si tratta di un libro diviso in due blocchi, la prima parte racconta la filosofia di vita di un perdigiorno, Pietro Pandolfi, una rockstar mancata di 45 anni. Si ha a che fare con le sue giornate inutili, con il suo confronto che non c’è, è un po’ un io contro tutti che non si fa coinvolgere nel mondo, da tutto ciò che gli accade. Nella seconda parte del libro, invece, si entra nella parte on the road, un vero e proprio viaggio: lui riceva una lettera della nonna 50 giorni dopo la sua morte che lo esorta, sul letto di morte, a crescere, a diventare un uomo non solo anagraficamente. È in questa parte che conosce Lana, una ragazza di 16 anni e insieme a lei decide di partire per un viaggio.
Oltre ai due blocchi, c’è una terza parte, a dire il vero, che nello spettacolo non c’è e che per me è importante; si tratta di un sogno, di circa 20 pagine, durante il quale il nostro protagonista sta andando in Francia e dà un passaggio a un autostoppista ben vestito. L’autostoppista è Luigi Tenco, e l’incontro avviene nel giorno in cui lui si suiciderà. Tenco infatti decide di scappare e Pietro sarà una specie di “Caronte” prima del suicidio che comunque avverrà.
“Pietro Pan. Memorie di un perdigiorno” se vogliamo è il frutto di una lunga ricerca che calca tratti anche antropologici, perché parla di “ cambiamento”, di rapporti umani e profondi e della volontà di liberarsi dai propri demoni interiori. Come è stato affrontare questi temi, e come è stato pensare di rivolgersi non più allo spettatore ma al lettore?
Ho provato tante volte ad approcciarmi ad un’esperienza di questo tipo, a scrivere sotto forma di romanzo. Con la forma prosa sono andato molto più a fondo rispetto alle canzone o allo spettacolo teatrale. La percezione è stata quella di lavorare a qualcosa di molto più “intimo”, per certi verso anche molto più “doloroso”. Non è stato semplice scrivere in questa forma perché l’intento era restituire comunque delle immagini, motivo per cui credo – e spero- che la mia scrittura sia piuttosto fotografica. Ho provato a vedere le scene quasi come in un film. Vorrei infatti parlare di questo libro come di un romanzo cinematografico.
Come è stato quindi confrontarsi alla scrittura narrativa dopo quella drammaturgica?
Da “novellino” è stata una gestazione molto lunga; insieme al mio editore, Andrea Carnevale, abbiamo fatto un lavoro di editing molto lungo. Si pensa che finita la scrittura sia finita la stesura del libro, un po’ come succede con le canzoni: quando hai il testo e la musica, sono pronte, finite. Ci sono state molte revisioni prima di arrivare al risultato finale e non per aggiungere ma per togliere. Un attento lavoro anche di sottrazione insomma, ma credo che sia un espediente abbastanza normale per uno che si approccia a questo tipo di esperienze per la prima volta. Diciamo che la difficoltà si presenta soprattutto perché ti affezioni a ciò che hai scritto, ma nel dover “alleggerire” alcuni passaggi sono riuscito a ritrovare quello stile asciutto e diretto tipico anche di una canzone. Per quanto riguarda il linguaggio invece, resta quello dello spettacolo: a tratti forte, proprio come quello degli adolescenti.
Se Nicola Pecci dovesse descrivere questo libro usando tre aggettivi, quali userebbe?
Sicuramente romantico, per quel romanticismo di fondo che credo si percepisca soprattutto durante la fine, cinico e ir-reale, usando un gioco di parole, nel senso che potrebbe essere quasi una favola ma non è proprio così. Tutto porta verso un mondo “delle favole” già a partire dalla copertina stessa, ma quel mondo in realtà non c’è, le cose stanno in maniera molto diversa da ciò che apparentemente potrebbe sembrare. Tutto è molto forte a dispetto di questa apparenza. E devo dire che mi sono sempre piaciute le cose che non necessariamente stanno bene insieme.
In un momento come questo, dove si va a teatro ma si posta la foto con l’attore su Instagram, dove ci piace leggere i post su Facebook ma sono molti quelli che dichiarano di non aver letto un libro nell’ultimo anno, perché invece consiglieresti di leggere e di conoscere Pietro Pan?
Per me questa è una canzone di 160 pagine, ma è anche come un film, quindi in qualche modo non si allontana dal mondo che ci ha totalmente “inglobati”, come quello dei social network, un mondo di immagini e musica. Si tratta di un romanzo “veloce” che un ipotetico lettore potrebbe anche leggere in una sola giornata. Non è un romanzo psicologico, ma qualcosa che vedi, quasi come un film raccontato, molto lesto e soprattutto molto rock’n roll, come il personaggio stesso d’altronde. È proprio dentro l’oggi, e con me non potrebbe essere diversamente proprio perché sono interessato a ciò che accade. Inoltre sono io stesso a credere che esista soltanto il presente, tanto da vivere il mio tempo quasi come una strizzata d’occhio ma non in maniera "ruffiana". I protagonisti parlano come le persone dei nostri tempi, sono giovani alla stessa maniera, con gli stessi difetti, non sono personaggi idealizzati. Potrei definire “Pietro Pan. Memorie di un perdigiorno” come un film-raccontato o una canzone-in-prosa.
Dopo uno spettacolo, un libro e un disco, hai nuovi progetti in vista?
Sì, un film che tratta dell’ Alzheimer , una commedia sentimentale e commovente. Quest’esperienza mi ha permesso il confronto con una forma ancora nuova, diversa dallo spettacolo in teatro, spettacolo, dalla musica e dalla scrittura. Ho provato prima di tutto a capire cos’ero in grado di raccontare con una recitazione che non avesse nulla a che fare con il concetto di live e di palcoscenico. E ho davvero capito che è tutto molto diverso, molto complesso, e questo devo dire che mi ha anche molto divertito. Ma non voglio "spoilerare" troppo, posso solo dirvi che si intitola “Ho sposato mia madre” e che io vestirò i panni di Saverio.
Laura Sciortino 10/10/2018