In “Notturno di donna con ospiti”, saggio di diploma dell’allievo regista dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” Mario Scandale, si assiste a un ribaltamento dei ruoli in cui il regista, che è stato un suo allievo, si ritrova a dirigere il maestro. Abbiamo rivolto alcune domande al M°Arturo Cirillo che interpreta il ruolo della protagonista, Adriana.
Il fatto di essere diretto in scena da un suo allievo può considerarsi allegoria di un rapporto maieutico alla base dell’arte e, nello specifico, del teatro?
Quindici anni fa non avrei mai pensato di fare l’insegnante, ma questa esperienza mi ha permesso di entrare in contatto con realtà molto stimolanti di nuovi registi e attori. Mario Scandale è già stato mio assistente in “Miseria e Nobiltà” portato in scena a Napoli e, lo scorso anno, mi ha chiesto se volessi partecipare a questo saggio. La mia risposta è stata ponderata, certo, ma in questo mese e mezzo di lavoro mi sono reso conto della grande portata emotiva che poteva avere su di me tornare nelle aule dell’Accademia Silvio d’Amico come “allievo” e non come insegnante. Mi ha poi colpito il fatto che volesse portare in scena Annibale Ruccello, un autore che amo molto, che ho interpretato e portato a lezione: ha avuto quest’idea di farmi interpretare un personaggio insolito per un uomo e, per di più, per un uomo della mia età.
Complessivamente, come si è rivelata l’esperienza di “Notturno di donna con ospiti”?
Come dicevo, il mio sì è nato dall’interesse verso l’autore, ma anche dalla voglia di premiare l’arditezza di Mario che ha deciso di mettersi doppiamente in gioco: non solo mi dirigeva, ma mi metteva anche in un contesto di attori molto più giovani. Su quel piano è andato tutto bene sin da subito: ho assunto un atteggiamento di ascolto e collaborazione perché sono molto incuriosito da uno sguardo che si deve ancora formare, rispetto ai vizi e alla stanchezza del mestiere. Trovarmi a recitare con dei ragazzi che provano come se fosse la replica e che si danno senza riserve, mi ha entusiasmato, anche perché fa parte del mio modo di lavorare ed è una cosa che esigo dalla mia compagnia. Trovo che Mario Scandale sia molto bravo a dirigere gli attori: lo avevo già percepito l’anno scorso, ma ne ho avuto la conferma, ritengo abbia una buona capacità di dare le giuste indicazioni e che sia uno dei pochi allievi registi che faccia recitare in maniera non troppo accademica, che non è una cosa così scontata.
Tornando a Ruccello, è un autore su cui ha già lavorato, non solo per il teatro ma anche per la televisione. Il passaggio da un medium all’altro quanto può penalizzare o esaltare l’opera?
Partiamo dal presupposto che per me uno spettacolo teatrale non potrà mai totalmente rivivere in tutta la sua complessità in televisione. Tuttavia, ritengo che la documentazione televisiva del teatro, oggi in larga espansione, sia un dato molto positivo. Ma si può guardare oltre: ad esempio, con la regia di Adolfo Conti, portammo in tv “Le cinque rose di Jennifer”, ricreando tutto come se fosse un set, registrando senza pubblico, montando spesso la telecamera sul palco e allestendo la scena in funzione della telecamera. Il passaggio da un medium all’altro, in un caso del genere, è estremamente interessante proprio perché modifica l’approccio al testo, ma risorse economiche e disponibilità di tempo sono indispensabili per un’operazione simile.
In quest’opera, un aspetto che emerge è quello linguistico, accompagnato dalla narrazione della “napoletanità”, seppur in tralice. Secondo lei, trasposta in un altro contesto geografico, la vicenda avrebbe avuto la stessa efficacia?
Penso che i testi di Ruccello abbiano sempre delle ambientazioni ingannevoli: non ho mai pensato alla sua drammaturgia come legata a un tessuto reale. Sono scenari in cui Napoli è presente con le sonorità e l’ispirazione, ma è un contesto apparente. Un autore di così ampio respiro non può avere una delimitazione geografica: le sue influenze letterarie e cinematografiche, le sue ambizioni teatrali e le sue inquietudini sentimentali andavano evidentemente oltre il contesto dal quale proveniva. E trovo particolarmente interessante la sua capacità di sporcare la cultura napoletana. Uso volutamente la parola “sporcare”, perché lui stesso dichiarava di avere una predilezione per il brutto della vita, ha portato in scena personaggi retrogradi, bigotti, infantili e irrisolti: dei tipi universali, la cui efficacia prescinde dal luogo di origine.
La genesi di Adriana, in questa versione diretta da Mario Scandale, avviene direttamente sul palco e lo spettatore assiste alla trasformazione. Questa scelta, secondo lei, denota la volontà di empatizzare con il pubblico?
In realtà, quel preambolo non porta necessariamente empatizzazione. Anzi, si può dire che l’empatia tra palco e platea si crea solo se i personaggi riescono a raggiungere un livello di condivisione emotiva. Omosessualità, travestimento e travestitismo trasfigurano persino il modo di intendere l’attore: nella drammaturgia di Ruccello possiamo avere di fronte un travestimento a tutti gli effetti, ma anche un uomo che interpreta un personaggio femminile. Quindi, quel preambolo non è fatto tanto per creare empatia, ma forse proprio il suo opposto, per dichiarare una scissione tra personaggio e attore. Non sono io che mi calo in Adriana ma, pur mantenendo la mia identità, attraverso questo personaggio femminile. Ogni volta che ho affrontato il mondo del femminile, mi sono sempre approcciato all’interiorità e, usare un travestimento solo accennato, in questo caso, rimarca l’incompletezza della protagonista.
I figli sono una presenza fantasmatica, evocata per aneddoti ma, al contrario, le figure genitoriali sono estremamente presenti. Si biforca il modo di intendere la genitorialità: da una parte, quella frustrata che Adriana “esercita” nei confronti dei suoi figli, dall’altra, quella “subita” dalla stessa donna.
Adriana è un personaggio che evidenzia un germinare di problematiche interne al contesto familiare: rapporti non felici, un maggiore attaccamento alla figura del padre, aspettative deluse, sensi di colpa,... Tutto questo rappresenta la zavorra del passato, a cui si aggiungono gli uomini che sembrano non averla scelta. Ed ecco l’importanza di rendere la sua emotività, l’immaturità e l’insoddisfazione molto forte. Si tratta di una donna molto poco realizzata, in cui persino i figli diventano quasi più un mantra da ripetere, che autentici portatori di un’esperienza. E si ha, alla fine, la sensazione che tutto questo sia solo nevroticamente immaginato da una donna – Adriana, appunto – che resta sola con le sue ombre.
Letizia Dabramo
11/03/2017