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Intervista a Gianfranco Capitta: “il mio ricordo di Ronconi”

Dopo l’evento “Luca in Accademia” in memoria di Luca Ronconi (scomparso appena due anni fa), tenutosi il 3 aprile scorso al Teatro Studio “Eleonora Duse” di Roma, in collaborazione con l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, abbiamo intervistato Gianfranco Capitta, critico teatrale e docente accademico, per parlare del suo personale ricordo del grande regista.

Com’è stato il primo impatto con le opere di Luca Ronconi?

Quando ero ancora al liceo, vidi “I lunatici”, uno dei primissimi spettacoli di Ronconi. Da lì in poi ho seguito il suo teatro per molto tempo, ad esempio ho visto tre-quatto volte il suo “Orlando Furioso”, infatti quando l’altra sera ne ha parlato Massimo Foschi, mi sono emozionato. Nel periodo degli studi, tra il liceo e l’università, quindi tra il ’67 e il ’77, ebbi modo di vedere a teatro molti suoi lavori e assistetti anche a delle prove. La sua opera nella totalità ha influenzato profondamente il mio essere spettatore, quindi il mio modo di vedere il teatro.

Si ricorda il primo spettacolo ronconiano che ha recensito?

Nel 1976 ho cominciato a scrivere professionalmente. Nel 1978 sul quotidiano “Il Manifesto” venne pubblicata per la prima volta una mia recensione di un lavoro di Ronconi, ovvero il trio di spettacoli composto da “Calderón", “Le Baccanti” e “La torre”. Ricordo ancora il titolo dell’articolo, “Le tre perle di quel giardino”. Successivamente ho scritto moltissimo su di lui e ho tuttora una grande memoria dei suoi spettacoli.Fa1

Quant’è difficile, secondo lei, continuare a mettere in scena i lavori di Ronconi, dopo la sua morte?

Quasi impossibile, perché tutti gli spettacoli erano indissolubilmente legati alla sua persona. Probabilmente è meno complesso riuscire a far rivivere sul palco i suoi ultimi lavori. Mi riferisco in particolare a “In cerca d’autore. Studio sui sei personaggi” e al kolossal “Lehman Trilogy” (quando lo vidi a teatro fu l’ultima volta in cui incontrai Luca di persona); spettacoli che in ogni caso sono da considerare dei veri monumenti del linguaggio teatrale. Le riprese delle prime regie sono a mio avviso insensate, perché con la sua morte hanno perso il loro soffio vitale.

Quanto la poetica di Ronconi ha influenzato il teatro contemporaneo italiano?

Indubbiamente moltissimo. L’immediata ricezione dei suoi spettacoli non fu delle migliori da parte delle istituzioni, poi pian piano tutti riconobbero il genio, anzi addirittura lavorò come direttore e consulente artistico per i teatri pubblici di Roma e Milano. Con lui il teatro italiano fece un grande balzo in avanti. Le sue regie avevano una tale complessità del disegno teatrale, una lungimiranza, uno spessore e una profondità che prima erano impensabili. Il coraggio di portare in scena opere autonome e quella determinazione nello sfruttare le molteplici possibilità del teatro sono ancora oggi estremamente rare. Lui e Massimo Castri erano registi critici nel vero senso del termine; il loro teatro non si adeguava mai, anzi manteneva sempre viva la propria potenza illusoria, quasi magica. Con la sua scomparsa è finita un’era, sento moltissimo la sua mancanza. Ovviamente anche nel panorama odierno abbiamo registi molto capaci, pur essendo abbastanza lontani dalla poetica ronconiana. Penso ad esempio, a Massimiliano Civica e a Mario Martone, che fa anche cinema, quindi è allenato ad avere un occhio multiplo ed è abile nell’orchestrare la messa in scena.

Ha qualche aneddoto personale che vuole condividere con noi?

Ho numerosi ricordi degli incontri personali con Luca. Lui era molto ironico, capace di battute intelligenti, una bellissima persona. Tra noi c’era una grande amicizia e ne sono profondamente onorato. Un aneddoto che mi viene in mente ora fa riferimento a quando andai a trovarlo nella sua casa sulle colline di Gubbio. Mi recai lì perché stavamo lavorando al libro “Teatro della conoscenza”. Lui era un vero appassionato di botanica e ricordo che quel giorno era molto contento perché nella serra le peonie stavano fiorendo. Io scherzando gli dissi: “Questo sembra essere proprio il tuo mondo. Ti muovi tra le piante come se si trattasse di umanità. Parli anche con loro?” E lui rispose: “Non ce n’è mica bisogno”, come se fosse scontato che se la intendessero. Le conversazioni con lui erano sempre molto divertenti, perché aveva un mondo eccezionalmente vivo dentro e attorno a sé. È per questo che amava lavorare con i giovani; oltre ad impegnarsi nel donare loro la sua impronta, era attento a cogliere la loro freschezza e ricchezza interiore e artistica. Penso a Galatea Ranzi, che è stata una delle attrici di riferimento del suo teatro. La ricordo quando nel 1987 era ancora al secondo anno del corso di recitazione in Accademia e io la vidi in scena in un saggio-spettacolo: “Amor nello specchio “, al Teatro dei Documenti dello Studio Damiani, con la regia di Ronconi. Fu incredibile, chi la conosceva era sconvolto; lavorando con lui era già diventata una grande attrice.

Sara Risini 05/04/17

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