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La Storia e le storie di “L'ultima madre” dal romanzo al palcoscenico. Recensito incontra l'autore Giovanni Greco

Due storie di donne agli antipodi che si intrecciano e si contaminano nel corso degli anni, vicende individuali e universali disseminate in un lasso di tempo che va dagli inizi del Novecento ai giorni nostri; sullo sfondo, l'Argentina di Videla, colpita al cuore con l'oscura vicenda dei desaparecidos, e molte altre pagine nere della nostra contemporaneità. Tutto questo è molto altro prende vita in “L'ultima madre”, romanzo-inchiesta del 2014 di Giovanni Greco, autore letterario, drammaturgo e docente di drammaturgia dell'Accademia d'Arte Drammatica “Silvio d'Amico”. Proprio dal romanzo è tratto l'omonimo spettacolo teatrale, da lui scritto, diretto e interpretato, che andrà in scena dal 5 al 7 maggio al Teatro Vascello di Roma.
Abbiamo incontrato Giovanni Greco durante la preparazione dello spettacolo per farci raccontare i retroscena del racconto e del passaggio dal libro al palcoscenico.

Ci racconta la genesi del romanzo?

L'idea per il romanzo nasce innanzitutto dalla pura ammirazione. Negli anni ho intrapreso numerosi viaggi in tutto il sud America, dall'Argentina stessa, al Cile, al Messico, e ho notato una grande partecipazione culturale, nonostante la povertà molto diffusa in quei luoghi: fuori a cinema e teatri c'è sempre una grande fila, il dibattito in proposito è molto più vivo che altrove. Rispetto invece alla vicenda del romanzo, tutto cominciò in particolare con un viaggio a Buenos Aires nel 2005. In quell'occasione mi colpirono le madri e le nonne di Plaza de Mayo, che ogni giorno sfilavano davanti alla Casa Rosada, e delle quali all'epoca sapevo ben poco ma di cui mi aveva parlato un mio ex allievo di origini argentine. Conobbi quelle donne coraggiose e le loro storie, approfondii le ricerche e visitai i luoghi legati ai quegli eventi tragici, camminai per le strade di quella città che di fatto è poi divenuta un personaggio del romanzo. Buenos Aires è davvero un posto affascinante.

Dal romanzo alla drammaturgia, due linguaggi differenti ma allo stesso tempo affini. Ci racconta il percorso dal libro all'adattamento teatrale, con le sue aggiunte e le sue rinunce?

I ritmi del teatro, per forza di cose, devono essere molto più condensati rispetto a quelli del romanzo, che presenta numerose vicende in un arco di tempo molto dilatato. Ho dovuto sacrificare molti dei personaggi, perché nella mia lunga esperienza sulle scene ho appreso le diverse esigenze legate a spazio, tempo e modalità di fruizione della messa in scena. Mi sono concentrato sulle storie di Marìa e Mercedes, le due protagoniste, che si alternano in parallelo, omettendo i numerosi flashback presenti del libro. Naturalmente, la presenza della Storia non può mancare e spesso la narrazione viene interrotta da digressioni, una cornice di carattere universale fatta da frammenti di interviste e testimonianze di personaggi realmente esistiti, implicati direttamente nella vicenda dei desaparecidos.Locandina web

Marìa e Mercedes sono due figure materne differenti socialmente e culturalmente ma psicologicamente molto profonde e in qualche modo unite. A chi si è ispirato nel tratteggiarle?

Marìa è un'ideale summa, in tutti i suoi aspetti, di tante delle donne di Plaza de Mayo che ho incontrato, con cui ho parlato. Il filo rosso che la unisce a Mercedes è per l'appunto l'ostinazione, l'incapacità di rassegnarsi. Questa è una sfumatura che, in quanto uomo, ho associato all'istinto materno, nell'accezione sia positiva che negativa del termine. C'è da dire infatti che entrambi i personaggi, sia Marìa che Mercedes, avvertono un'esigenza fortissima legata all'istinto primordiale, quello della madre, che le rende, nel romanzo ma soprattutto nello spettacolo, assolutamente multisfaccettate.

Un legame molto forte con l'Italia è sempre presente...

“L'ultima madre” è uno spettacolo sul tema dell'identità. In tal senso, l'Argentina è un paese ibrido: non esiste “un'argentinità” pura ma un insieme di numerosi innesti scaturiti dalle migrazioni. Ad esempio, moltissimi argentini hanno origini nord-europee e un terzo di essi ha un cognome italiano, per cui l'identità di questo paese subisce da sempre un continuo rimescolamento. La stessa lingua del tango, il lunfardo, è ibrida e deriva dallo spagnolo (non castigliano) ma anche da molti dialetti italiani. Il rapporto tra Argentina e Italia è dunque vivo, fortissimo. Nel romanzo, ad esempio, la stessa Marìa ha un marito, e quindi dei figli, di origini italiane e quando comincerà ad essere perseguitata deciderà di fuggire in Italia non a caso; storicamente parlando, Videla aveva un cognome italiano; Viola, Galtieri e Bignone, così come molti generali dell'esercito argentino implicati nelle stragi – anch'essi di origini italiane - hanno collaborato con la P-2 di Licio Gelli. L'Italia, per volti versi, anche in maniera destabilizzante, ha contribuito a delineare l'identità e la storia di quel mondo.

Ne “L'ultima madre” il tango si trasforma in un personaggio creato appositamente per la versione teatrale. Da dove proviene quest'idea?

Il tango che noi conosciamo ha un'impronta principalmente commerciale, turistica, ed è quello che si è imposto in maniera mainstream. Il tango che si vede ballare per le vie di Buenos Aires, in maniera del tutto improvvisata, è ben diverso. È quello di Anibal Troilo, maestro del celebre Astor Piazzolla, che viene rielaborato musicalmente e interpretato per la messa in scena da Daniela Troilo, sua lontana parente. Il tango doveva essere assolutamente rappresentato, in quanto simbolo di un'identità che ha radici popolari e colte allo stesso tempo. È una danza sensuale, capace di trascinare e coinvolgere, che lavora sui nostri impulsi e genera sentimenti forti. Tra i tanti personaggi sacrificati, il Tango non poteva che divenire un protagonista.

“L'ultima madre” è soprattutto una denuncia dei crimini contro l'umanità della storia contemporanea. Si passa dai desaparecidos al rapimento dei loro bambini, dalla Shoah alla rivoluzione messicana. Che contributo può dare il teatro, parlando della versione teatrale, in materia di diritti umani?

Io non credo che esista un teatro totalmente slegato dalla politica, nel senso più nobile del termine. Ogni volta che lavoro nell'ambito teatrale, più o meno indirettamente, riscontro sempre un forte legame con ciò che la storia non ha ancora superato, con quegli avvenimenti ancora vivi e “sanguinanti”. In tal senso, esistono vantaggi e svantaggi rispetto, ad esempio alla letteratura, al giornalismo, la saggistica: il teatro permette la presenza diretta, le reazioni del pubblico sono istantanee e in alcuni casi ciò risulta limitante o ambivalente. Eppure è l'unica forma d'arte, in questo mondo dominato dalla virtualità, che permetta una presa di coscienza così intensa e immediata verso noi stessi e ciò che ci circonda. È per questo che il teatro non morirà mai: tutti coloro che ne annunciano la crisi possono rassegnarsi.

Nonostante si parli di crimini atroci, di pagine nere della nostra storia, nel romanzo la speranza sembra comunque presente: molti nipoti rapiti, ad esempio, ritrovano la loro identità. È così anche nella versione teatrale?

La parola speranza viene spesso utilizzata a sproposito, specialmente se con un intento consolatorio, illusorio. Questo aspetto, in tal senso, è assente sia nel romanzo che nello spettacolo. Ma facendo i conti con se stessi dopo aver perso tutto, guardandosi dentro senza sconti e compromessi, si trova qualcosa di molto simile alla speranza. In tal senso, nella vicenda, si mettono in scena le peggiori barbarie umane ma anche il relativo spettro di possibilità di rivalsa dell'animo di ognuno di noi. La vera bellezza è quella di chi resiste, di chi non si rassegna nonostante la morte di un figlio, ed è presente ogni giorno nei gesti e nelle parole di quelle donne che ho incontrato. È una bellezza che io ritengo oggettiva e che noi non comprendiamo, non possediamo.

L'anno scorso lo spettacolo ha debuttato, presso la Camera dei Deputati, nel Giorno della Memoria, il 27 gennaio. Quale significato ha avuto quella particolare esperienza per l'opera e per lei in quanto autore?

La memoria è il tema principale della storia e questo è evidente già nel titolo stesso, che viene spiegato in una scena del romanzo. In un confronto col padre Jacinto, il grande burattinaio della vicenda, Mercedes confessa di aver appreso le origini dei suoi figli adottivi, Nacho e Mari, nipoti di Marìa. L'uomo le mostra un embrione mai nato, da lei espulso anni prima, conservato in una soluzione alcolica: quello che conta, le spiega, è l'ultima madre, colei che si è presa cura dei propri figli, non la madre biologica. Questa scena, funzionale per comprendere le dinamiche politiche dell'epoca, rappresenta perfettamente la ferma volontà di distruggere il legame col passato, con i ricordi. Per questa ragione, in Argentina un'intera generazione è saltata, i ribelli sono stato spazzati via e c'è un vero e proprio buco nella memoria collettiva del paese. Il futuro che n'è venuto fuori è fermo, cristallizzato, malato, poiché nasconde dietro di sé l'orrore della morte: non è possibile avere un presente e un futuro senza avere un passato.

Denise Penna 19/04/2017

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