È schietto, simpatico e parla veloce, Simone Avincola, classe 1987, dal baffetto alla Ringo Starr in versione Sgt Pepper’s, anche se in fondo non ci assomiglia per niente. L'abbiamo incontrato prima del suo live a 'Na Cosetta lo scorso 20 ottobre per entrare nel suo mondo musicale. Un mondo fintamente scanzonato e allegramente complesso, proprio come sembra essere lui: una tavolozza quasi schizofrenica di immagini, ispirazioni e sentimenti volutamente schizzati, mischiati e in continuo iperattivo cambiamento. Il cantautore romano ha infatti già tre album alle spalle ma nessuna voglia di finirci incorniciato dentro, anzi: l’insonnia creativa e il frullio di idee che si avvertono scorrazzare per la sua testa non si riescono a esprimere bene con solo le parole. Meno male che c’è, e ci sarà, la musica.
Cosa vuol dire per te fare musica? Perché hai deciso di iniziare a scrivere e comporre?
“Mi ci sono un po' ritrovato, diciamo. Mio padre suonava la chitarra e mi ha insegnato i primi accordi e introdotto ai miei primi ascolti, che erano poi quelli che ascoltava lui negli anni Settanta: gruppi molto rock, Rolling Stones, Who, Dylan. Poi ho cominciato a studiare chitarra, sono stato chitarrista di vari progetti, ma di nascosto ho sempre scritto canzoni. Una volta le ho fatte ascoltare ai miei amici, che volevano sapere cosa facessi tutto il tempo chiuso nella mia stanzetta, e da lì è partito un po' tutto. Ho conosciuto alcuni dei componenti del gruppo che adesso suona con me nella scuola di musica che frequentavo...e così è cominciato questo viaggio che non so dove porterà, non so manco se è mai partito!”.
Quali sono i tuoi punti di riferimento musicali?
“La risposta è banale, di quelle che probabilmente ti dicono sempre però è vero. Non ce n’è uno, mi piace veramente ascoltare di tutto. Vado molto a periodi, cioè mi fisso, da Guccini ai Sex Pistols. E li consumo, li consumo fino a quando non ne sono saturo e devo cambiare. Diciamo che ho cominciato a scrivere quando ho sentito i primi cantautori, quelli anni Ottanta, i nomi grossi insomma. Poi da loro ho scoperto che c’era tanta roba nel sottosuolo, e sono andato a scavare scoprendo un sacco di cose fighe che mi hanno insegnato che si può parlare di tante cose senza essere banali, anche d’amore”.
Questo si vede anche dai tuoi album, che sono molto diversi tra loro. Sei cresciuto molto: come è avvenuto questo processo di cambiamento?
“Io ho questa cosa, che non so se è positiva o no, di cambiare molto. Adesso sto scrivendo cose nuove che mi piacciono molto, ne sono molto contento perché credo mi identifichino al cento per cento, ma probabilmente tra due anni ti dirò che mi fanno schifo. Dopo un po' di tempo difatti rinnego quasi le cose vecchie, penso sia normale. Quando uno viene a vedere un mio concerto con i brani del mio ultimo disco, li sente per la prima volta proprio lì, magari pensa che io li abbia appena scritti. Invece magari è passato un anno, sono stato un anno a cantarmeli, sei mesi per registrare, fare il progetto dei live, quindi alla fine sono di molto prima, sono passati”.
Quanto è importante per te il momento del live?
“Per me il disco è uno strumento, quasi un pretesto per suonare, che è la cosa che assolutamente amo di più. Ho quasi paura quando incido un disco, perché ad esempio se faccio un accordo in un certo modo poi penso che sarà così per sempre. Dal vivo invece posso divertirmi e ogni volta provare a cambiare gli arrangiamenti e a sperimentare”.
Hai avuto diverse importanti collaborazioni nel tuo percorso: cosa ti hanno lasciato? Ce n’è qualcuna che ricordi in modo particolare e qualcuna che vorresti realizzare nel futuro?
“Di quelle passate, quella che mi è rimasta più nel cuore è quella con Freak Antoni degli Skiantos, perché era veramente un grande, anche come persona. Le persone comiche, ironiche spesso nascondono grande profondità e lui era una di queste. Poi nel futuro mi piacerebbe collaborare non tanto con nomi grossi, ma con tutti quei nomi dell’underground che stanno uscendo ultimamente, di questa realtà detta indie che c’è adesso, che io non disdegno, mi piace. Secondo me c’è molto snobismo da parte delle etichette, dei discografici: secondo loro la musica d’autore è quella anni Ottanta, che deve raccontare per forza di certe cose, deve essere per forza strutturata con una rima. Invece per me è bello che oggi ci siano nuovi artisti che si esprimono con più libertà, meno pesantezza, senza rientrare per forza in certi schemi”.
E non pensi che in questo proliferare di artisti “alternativi”, l’essere indie rischi di diventare a sua volta uno schema?
“Questa è una bella domanda... Potrebbe essere. Per adesso però non si può dire. Probabilmente a un certo punto usciranno artisti che forzano questi tratti, però adesso secondo me questo è un punto di rottura, e quando cambia qualche cosa è sempre positivo: vuol dire che ce n’era bisogno”.
Come nascono le tue canzoni?
“Nascono molto dal quotidiano. Io non sono uno che si mette a tavolino a scrivere, proprio non ci riesco, ho provato fallendo miseramente e cestinando tutte le cose che uscivano perché erano una cosa indegna! Quindi scrivo quando capita, quando mi arriva l’idea. Spesso sono molto ansioso perché sto lunghi periodi senza scrivere niente, proprio perché non mi va di forzarmi, mentre le volte in cui mi sforzo il risultato è che rimango più tempo senza voglia di scrivere. Non sono nemmeno uno che legge tanto, non prendo ispirazione nemmeno da quello, piuttosto dalla spazzatura, mi viene meglio. Ecco, quella la guardo e devo dire che non mi dispiace, trovo più roba lì che altrove”.
E anche da Roma, direi. In alcune tue canzoni si vede l’attenzione sulla città e anche sulla sua lingua.
“Diciamo che da questa cosa sto un po' uscendo fuori. Hanno scritto spesso che sono un cantautore romanesco, ma in realtà io ho scritto solo tre o quattro canzoni in romano. Vorrei uscire dallo stereotipo di romano coi baffi. Quando mi è capitato di scrivere in romanesco o di parlare di Roma è perché, come tutte le altre canzoni, i testi mi arrivavano così di getto. Roma è una città che amo, io sto alla Garbatella che è un quartiere stupendo, non puoi non raccontare e non essere ispirato da ciò che ti circonda. Però ci tengo a dire che non sono un cantautore romanesco: mi piace Roma perché mi piacciono le radici, ma in realtà una larga parte delle mie cose non è incentrata su questo. Mi sembra un po' riduttivo”.
Tu sei anche uno che si è fatto un po' le ossa da solo, non ha mai partecipato a talent o simili. Cosa ne pensi di quel mondo?
“Prima ero molto più incazzato con i talent show, adesso mi sto un po' tranquillizzando. Mi hanno proposto per due volte di partecipare, una volta a X Factor e una a The Voice, mi hanno chiamato proprio dalla redazione. Io rispetto chi ci va, ma mi piacerebbe che ci fosse un’alternativa televisiva che invece non c’è. Quando risposi così dalla redazione mi dissero 'Vuoi continuare a farti i locali tutta la vita?'. Questa cosa mi ha proprio lasciato lì, è il sintomo di un ambiente marcio, un po' maligno, che comunque non mi ha mai attirato. E poi sono fabbriche di interpreti, non contenitori di artisti”.
Possiamo dire che il tuo “talent” di visibilità sia stata la collaborazione con Fiorello: come la differenzi da quella televisiva?
“Sì, è vero, ma appunto è una cosa diversa. A quel tempo io consegnavo le pizze a domicilio, e mi presentai proprio da lui la mattina. Sapevo dove era il bar e quindi sono andato, gli ho raccontato che consegnavo le pizze ma che sono celiaco, lui si è messo a ridere e da lì è nata un po' tutta la storia. C’è molta stima, vado spessissimo là. Credo sia un mondo totalmente differente perché lui è riuscito a portare la televisione nel bar, che è il contrario di quello che succede di solito, e secondo me è un’idea molto innovativa e molto originale. Lui ha costretto la radio - e adesso la televisione - a entrare dentro la quotidianità della gente invece che l’opposto”.
C’è qualche canzone che hai scritto a cui tieni particolarmente?
“Sono legato un po' a tutte. Alcune proprio non le sopporto più, ad esempio le prime che ho scritto, perché non mi ci rivedo più. Le prime “normali” le ho scritte che avevo 15 anni. Quelle a cui sono più affezionato sono quelle che devo ancora scrivere”.
E per quanto riguarda i progetti futuri?
“Quest’estate ho lavorato molto. Da poco ho scisso il contratto con la mia etichetta, di comune accordo, perché voglio cercare qualcosa di diverso, così come nella musica. Quest’estate mi è capitato di scrivere delle cose un po' diverse dal solito, tutte scritte molto poco poeticamente sul Mac. Praticamente non ho scritto, cioè facevo le basi per gli accordi e poi ci cantavo sopra le cose che mi venivano in mente magari per un’ora. Sono tutte canzoni che non ho scritto, ma che ho scritto successivamente, dopo averle create. Non so ancora quando farò il prossimo disco, per adesso mi sto lasciando guidare così. Vorrei proprio dare una chiusura con il passato, anche perché alcune cose che sono state estrapolate dai miei dischi non mi rappresentano secondo me, ho scelto canzoni invece di altre di cui non sono soddisfatto al 100%. Vorrei un po' allontanare questa visione di me, l’interpretazione che è stata data dei miei lavori, questa “romanità” forzata (che poi forzata non è per me, ma lo diventa se spinta da altri) e anche questa ironia che ho cantato per vent’anni e che adesso non mi piace più tanto. Vorrei raccontare le cose sempre con un filo di ironia - che tanto mi viene naturale - ma in modo un po' diverso. Ma rimarrò sempre con la mia band: Edoardo Petretti alle tastiere, Matteo Alparone al basso e Luca Monaldi alla batteria. Mi piace ascoltare le loro opinioni, farmi aiutare nelle decisioni e negli arrangiamenti (soprattutto da Edoardo) dopo che io ho scritto musica e testi...e poi tanto alla fine ho sempre io il potere!”.
Giulia Zanichelli 04/11/2016