"Imagine there’s no countries
it isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
and no religion, too".
Le TV nazionali comunicano che la judoka iraniana Leila (Arienne Mandi), nel bel mezzo del mondiale, si è ritirata dalla competizione. Ma questo non è vero: lei sta ancora lottando. Per l’oro e per la vita.
Tatami (2023), film diretto da Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi (che è anche la coprotagonista del film) e acclamato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, è la storia di Leila Hosseini, atleta candidata all’oro mondiale. Però, poco dopo l’inizio della competizione, la sua coach Maryam riceve una minacciosa telefonata: la Repubblica Islamica dell’Iran, consapevole che Leila avrebbe potuto competere in finale contro un’israeliana, ordina alla judoista di ritirarsi. Ma Leila è ostinata, anche se combattuta, e decide di non sottostare agli ordini. Lo fa nonostante sia consapevole dei pericoli in cui sia lei che la sua famiglia (e la sua intera squadra) potrebbero incorrere. Il luccichio dorato della medaglia è la luce che può portare alla libertà. Ma qual è il prezzo da pagare?
Tatami è la storia di una censura: un termine in questo caso da leggersi in lato sensu. Perché se la censura è una limitazione della libertà d’espressione, e se lo sport è per Leila il suo modo di mostrarsi e comunicare, allora anche vietarle la vittoria rientra tra le tante mosse censorie dell’Iran. Lo sport è il veicolo di qualcosa di più grande: non piacere, non lavoro, non gioia per la squadra del cuore. Lo sport è in Tatami è potenzialmente ricco di significati politico-sociali e, in quanto tale, va censurato.
La vicenda si svolge quasi interamente in una struttura sportiva a Tbilisi, in Georgia, scegliendo limitate parti dell’immenso edificio. Viene utilizzato il bianco e nero, scelta curiosa data l’ambientazione contemporanea, ma ben ponderata. La macchina da presa fa vorticosi voli pindarici tra un luogo e l’altro, è dinamica, e insegue Leila: è uno dei tanti occhi islamici che la osservano e la pressano affinché lasci il mondiale. La musica è assordante e non ha l’aspetto di una dolce melodia, ma è un rumoroso rimbombo che percuote lo spettatore. L’interpretazione di Arienne Mandi si connota di gesti nervosi (corre sulla cyclette, si autolesiona, vaga in solitaria senza meta, ecc.). Tutto questo, rende il film soffocante e il nostro sguardo soffocato. E noi non ci limitiamo a empatizzare con la protagonista, bensì la inglobiamo nella nostra psico-emotività e veniamo travolti con lei. Su quel tatami, stiamo lottando insieme.
Durante uno dei combattimenti finali, Leila si sente soffocare: è la mano del regime che le stringe il collo. E infatti, per tentare di liberarsi da quella morsa che le sta causando un attacco di panico, prova a togliersi il velo.
Lo scontro - fisico, ma soprattutto politico ed emotivo - della protagonista, corrisponde a quello portato avanti ogni giorno da chi vive in contesti similmente autoritari. Infatti il film, anche se non legato ad una figura specifica, si ispira a diverse storie vere. Tra l’altro, è interessante che a parlarci di una condizione del genere ci sia proprio Zar Amir Ebrahimi, icona femminile delle proteste contro il regime e attrice quasi sconsacrata dal ruolo dopo la diffusione di un suo video intimo. Dunque, falsità filmica e realtà si fondono in un’unica poesia, scritta con inchiostro nero su sfondo bianco e i suoi versi ci fanno sanguinare. E il film diviene così un gioiellino adatto al mondo contemporaneo. Un mondo in cui la violazione dei diritti umani viene praticata, accolta e subita giornalmente.
Ilaria Petroni, 16/05/2024