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La curva della "Nostalgia", nel nuovo film di Mario Martone

Tra i misteri che accomunano la vita delle persone, c’è il legame che gli adolescenti spontaneamente tendono a creare con alcuni coetanei; sarà per l’intensità dei momenti trascorsi assieme o per la grande capacità di assorbimento proprie di quell’età, ma se si incontra un amico, anche dopo anni, sembra che il tempo non sia passato o che comunque, a prescindere dalle pieghe che la vita ha preso, si respiri sempre un’aria di naturalezza. È questo il carattere precipuo dal quale parte la narrazione di Nostalgia, il nuovo film di Mario Martone, in concorso al Festival di Cannes ventisette anni dopo L’amore molesto. Felice (Pierfrancesco Favino) torna a Napoli, dopo esser stato all’estero per quasi quarant’anni. Seppur occupato ad accudire l’anziana madre (Aurora Quattrocchi), si aggira tra i vicoli del rione Sanità con l’obiettivo di rivedere il suo vecchio amico Oreste (Tommaso Ragno), divenuto un sanguinario boss.

La nostalgia è uno dei sentimenti più complessi e pericolosi che si possano provare: il desiderio del ritorno, l’assenza, il tarlo nella mente, il sussulto che si rinnova ogni volta che qualcuno o qualcosa ti riporta al passato, la sensazione di restare eternamente ancorati ai tempi della giovinezza, a un certo tipo di trascorso, pensando che tutto resti immutato. Ciò che forse non si è trasformato è proprio il quartiere, dove per’altro nacque il grande Totò, così descritto dallo scrittore partenopeo Ermanno Rea, autore del libro dal quale è tratta la pellicola: «Strade strette e tortuose, palazzi fatiscenti, alle spalle una storia lunga più di due millenni, testimoniata da ipogei, sepolcri scolpiti, scale che scendono sottoterra come volessero raggiungere le viscere del pianeta».

L’intellettuale Corrado Stajano recensì positivamente il romanzo, sulle colonne del Corriere, scrivendo: «Per tutta la vita [Rea] aveva pensato a quella storia che in un tempo lontano era successa nel Rione Sanità dove da bambino aveva vissuto lunghi periodi nella casa dei nonni, in via dei Cristallini, proprio nel cuore del quartiere, una strada lunga come una lama affilata. Era nato poco lontano, in piazza Cavour 8, conosceva bene la Sanità e quella vicenda sanguinante che era venuto a sapere, espressione di tutto un modo di vivere. Doveva raccontarla, un giorno, diceva a se stesso, anche per liberarsi dell’antica angoscia».

Scrive Rea: «Il problema dell’identità personale che Felice ricerca rientrato dall’Egitto, dove ha lasciato una donna ad attenderlo, è il problema dell’identità della Sanità, nonché di Napoli». Rispetto al passato, nel rione probabilmente delle cose sono cambiate: si sta creando sempre più una coscienza civica e anticamorra, anche grazie al lavoro di associazioni e di sacerdoti, come Don Luigi Rega (Francesco Di Leva) che tenta tutti i giorni di strappare i ragazzini dalla strada e di mostrar loro la possibilità di un futuro diverso. Nonostante l’epilogo finale, in una dicotomia tra bene e male che anima la città, il regista si smarca dal conferire un sapore ottimistico, o pessimistico, e offre allo spettatore l’attenta visuale - resa al meglio anche grazie alla fotografia di Paolo Carnera - di un labirinto, spaziale e temporale, che si trascina dietro tanta malinconia.

Eduardo De Filippo ne Il Sindaco del Rione Sanità ha scritto: «L’unica cosa di questo mondo che quando parla dice la verità: ‘o specchio». In effetti si fa fatica a trovare la giusta trasparenza nei rapporti; non bastano motociclette o giubbotti di pelle a far tornare le cose com’erano, soprattutto se celano segreti e fatti irrisolti. Questo può essere un bene perché il tempo disillude, sfata, dissacra. Il concetto di nostalgia è molto legato a quella che l’antropologo Vito Teti, in un recente pamphlet, ha chiamato la “restanza”, condizione che consiste nel «sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente». L’aria che il protagonista respira, a tratti porta ventate di cambiamento, in particolare nei volti di alcune persone, ma per altri versi conserva una serie di cattive abitudini spacciate per qualcosa di talmente radicato da non lasciare speranze.

Il regista, come frase introduttiva al film, ha scelto dei versi di Pier Paolo Pasolini: «La conoscenza è nella nostalgia. / Chi non si è perso non possiede». Sono parole molto significative e appropriate che spiegano la necessità di vivere un’esperienza alla ri-scoperta di noi stessi e quindi anche degli altri; non importano i rischi o gli smarrimenti: il tempo che scorre ha il vantaggio di rendere più nitide le cose, le persone.

Francesco Saverio Mongelli  04/06/22 

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