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Cannes e Dintorni: "Our Little Sister", "The Lobster", "Son of Saul"

La qualità della proposta cinematografica di "Cannes e dintorni" di quest'anno è stata al di sotto delle aspettative. Troppi nomi di rilievo sono rimasti privi di una collocazione nel calendario: dalla Palma d'oro "Dheepan" di Jacques Audiard al Premio per la miglior regia "The Assassin" di Hou Hsiao-Hsien, fino agli ultimi lavori di artisti del calibro di Gus Van Sant, Denis Villeneuve e Todd Haynes. Non importa, può succedere che qualche annata si riveli meno entusiasmante delle altre: la manifestazione va comunque difesa a oltranza, perché è una delle poche occasioni per vedere cinema d'autore, quel cinema d'autore che spesso e volentieri non viene neppure programmato nelle sale cinematografiche.
Troppo dolciastro e pieno zeppo di carinerie "Our little sister" del giapponese Hirokazu Kore-eda ("Father and son"), che a questo punto potrebbe meritarsi l'appellativo di "Pupi Avati d’Oriente". Dopo il funerale del padre, tre sorelle invitano la quarta figlia avuta dall'uomo ad andare a vivere con loro: sarà per tutte un'occasione di crescita personale. Se si fosse trattato dello stesso identico script ma con una produzione hollywoodiana e con attrici come Cameron Diaz, Rachel McAdams e Susan Sarandon, la critica mondiale lo avrebbe tacciato di buonismo e di familismo. In "Father and son" si poteva apprezzare uno sguardo delicato nei confronti delle differenze sociali senza cadere nella retorica ma, in questo caso, l'elogio della solidarietà femminile appare fin troppo ovvio e zuccheroso.
In "The Lobster" del greco Yorgos Lanthimos, vincitore del Premio della Giuria, è ipotizzato un futuro prossimo in cui chi è single viene portato in un hotel e deve trovare l'anima gemella entro 45 giorni, altrimenti sarà trasformato in un animale a suo piacimento. L'incipit è senz'altro accattivante e alcune trovate sono davvero geniali. Alla lunga, però, il giochino si rivela divertente ma fine a se stesso, la maniera fa sempre capolino e bisogna forzare eccessivamente per trovare letture rivolte alla contemporaneità.
Non convince completamente nemmeno l'acclamatissimo "Son of Saul" del l'ungherese Laszlo Nemes, vincitore del Grand Prix. Si parla di Olocausto, ponendo una lente di ingrandimento sul lavoro dei sonderkommando, gli ebrei che nei campi di concentramento si occupavano di accompagnare i prigionieri nelle camere a gas e di recuperare successivamente i loro corpi. La macchina da presa non molla mai il protagonista, quasi si fosse di fronte a un film totalmente in soggettiva. Gli orrori sono fuori campo o fuori fuoco: la sensazione è che Nemes abbia cercato di trovare un punto di vista inedito per raccontare qualcosa che non si conosca già o che possa sollevare ulteriore indignazione, senza però riuscirci. La trovata stilistica rischia di oscurare la forza del contenuto dell'opera e, alla fine, tutto appare troppo confuso e raffazzonato.

Emiliano Dal Toso 18/06/2015

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