L’anno è il 2019. Sulle ceneri della vecchia Tokyo, distrutta agli albori della Terza Guerra Mondiale, sorge Neo Tokyo. Gonfia di corruzione, decadente, animata da continui scontri fra la polizia e i manifestanti anti-governativi, Neo Tokyo è attraversata da bande di giovani motociclisti, che si fanno la guerra per strada, a costo di rimetterci la vita.
Fra loro c’è il giovane Kaneda, giubbotto rosso come la moto velocissima che guida tutte le notti, e Tetsuo, suo amico d’infanzia. Tetsuo è stanco di essere sempre difeso da Kaneda e vorrebbe dimostrare ai compagni di gang il suo valore. Non sa che proprio quella notte incontrerà l’Esperimento Numero 26 e un potere ingovernabile si risveglierà dentro di lui, mentre il nome di Akira comincerà a tormentare anche i suoi sogni.
Uscito trent’anni fa e ambientato in un futuro (fittizio) che dista appena un anno dal nostro presente, Akira è diventato un classico dell’animazione giapponese, che riesce ancora a parlare al pubblico del 2018, sia sotto il profilo tecnico che per quanto riguarda la sua storia. Forse è anche per questo che Dynit ha voluto celebrarlo, riportandolo nelle sale italiane esclusivamente il 18 aprile con un nuovo ridoppiaggio. Adattamento più fedele, sì, ma qualche dubbio sorge sulle voci, non tutte all’altezza di rispecchiare il dramma lacerante dei personaggi di Akira.
Perché Kaneda e soci si muovono in una realtà che, per quanto esasperata, tanto lontana dalla nostra non sembra essere. Il cupio dissolvi delle masse, che si affidano a santoni e profezie apocalittiche perché non credono più nelle promesse di un governo imbelle, si intreccia alla litigiosità di politici, che preferiscono insultarsi e giocare allo scaricabarile, piuttosto che affrontare una situazione che sta sfuggendo di mano.
Nel mezzo, da un lato c’è chi pensa di risolvere il vuoto di potere con muscolari prove di forza – bussare alla voce “il golpe militare del colonnello Shikishima”. Poi c’è chi partecipa a una rivolta anti-governativa sotterranea, senza sapere di essere a propria volta manovrato da quegli stessi soggetti che vuole combattere. E poi ci sono tutti gli altri, gli sbandati che una guida se la devono dare da soli. Come Kaneda, che insegue la ribelle Kei per un puro capriccio amoroso (e poi finisce coinvolto in macchinazioni più grandi di lui). O come Tetsuo, che – non più impotente – decide di usare la sua forza per distruggere tutto.
Ma Akira, tratto dall’omonimo manga e diretto da Katsuhiro Otomo (che quel manga aveva disegnato) è un capolavoro anche e soprattutto per le sue tecniche d’animazione. Nacque dello sforzo congiunto di più di dieci, grandi studi d’animazione giapponesi – che si unirono nella Akira Committee per racimolare il capitale e la forza lavoro necessari a realizzarlo. È il frutto maturo di un’animazione tradizionale ancora realizzata su fogli di celluloide (la famosa cel animation o animazione su rodovetro), che ha fatto sì che ogni gioco di luce, ogni intermittenza delle insegne al neon, venissero realizzate a mano, fotogramma per fotogramma. Con un piccolo aiuto della CGI, lì dove si scatenano i poteri ESP tutt’attorno al povero Tetsuo.
Akira assume ancora proporzioni trionfali, proiettato sullo schermo di un cinema, e coinvolge lo spettatore – ormai abituato a ben più recenti effetti speciali di matrice hollywoodiana – in un’esperienza immersiva, che toglie il fiato. Non si può spiegare altrimenti la sensazione straniante della luce dei fari, che restano impressi come scie luminose sulla pellicola, anche dopo che le motociclette sono sparite all’orizzonte. Alla grafica curatissima si sposa una colonna sonora – realizzata da Shoji Yamashiro – che sa essere stordente, come la Neo Tokyo elettrica e decadente in cui Kaneda si muove. Ma sa anche atterrire e soprattutto martellare nei timpani degli spettatori, come il dolore nella testa di Tetsuo, sotto forma di cori cupi e ossessivi.
Katsuhiro Otomo, anni dopo, ebbe a pentirsi di quella sceneggiatura, che riduceva forse troppo la storia contenuta nei sei volumi del manga originale e rendeva certi passaggi e lo stesso finale di difficile comprensione. Tuttavia, trent’anni dopo, si può solo convenire che Akira abbia ancora tanto da insegnare e mostrare, anche allo spettatore più scafato in fatto di animazione e cinema post-apocalittico. E riesce a farlo con grande stile.
Ilaria Vigorito 19/04/2018