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"La vita ferma": Recensito incontra l'attore Riccardo Goretti

Attore, scrittore e drammaturgo, Riccardo Goretti divide la sua carriera tra teatro, cinema e letteratura. Muove i primi passi a teatro nel 2002 con la compagnia NATA e successivamente con Gli Omini, per poi passare a produzioni teatrali proprie come "Annunziata detta Nancy" o "Gobbo a mattoni", recita nel film "Sogni di gloria" e nel 2014 pubblica il libro "That's all, Folks!". Recensito lo incontra dopo averlo visto in sena ne "La vita ferma", opera di Lucia Calamaro, dove è il protagonista.

Classe 1979, casentinese di nascita, sei uno scrittore, regista, drammaturgo e attore di teatro. Com'è nata la tua passione per il teatro?Goretti02

"Direi per caso, nel senso che ho iniziato a fare una scuola di teatro nel Casentino, non una cosa seria, ma da lì sono stato notato da quelli della scuola che avevano una compagnia e che facevano spettacoli per bambini. Così a 18 anni mi ci sono ritrovato in mezzo, senza aver ben capito dentro cosa mi stavo mettendo. Il teatro per ragazzi ha molto mercato e mi sono ritrovato in giro per l'Italia 80-90 giorni l'anno. Poi mi sono appassionato e ci sono rimasto dentro".

Come è cominciata la collaborazione con Lucia Calamaro e cosa ti ha colpito di più del lavorare con lei? Cosa ti ha trasmesso?

"Lucia mi aveva notato nel 2007 al Rialto, ai gloriosi tempi del Rialto Sant'Ambrogio, io ero insieme alla compagnia Gli Omini. Lucia mi vide e mi fece sapere che le ero piaciuto molto e che avrebbe avuto piacere a lavorare con me. Io però son stato dentro Gli Omini fino al 2012, una compagnia del tutto esclusiva, se ne facevi parte non potevi fare altro. Appena sono uscito da lì ho riscritto a Lucia, che in quel periodo non stava preparando nulla e mi chiamò per fare "Diario del tempo", ma non ci siamo riusciti per questioni di tempo. Nel 2015 ce l'abbiamo fatta e abbiamo cominciato a lavorare a "La vita ferma".
Quando lei mi notò io non la conoscevo, a quei tempi non era ancora famosa come adesso, era appena uscito "Tumore", ancora doveva uscire "L'origine del mondo". Per me sarebbe stato molto difficile pensare di poter lavorare con qualunque altro regista, quello che fa Lucia è ciò che interessa a me. L'approccio al testo molto esistenziale che ha, molto personale e sentito.... io ho bisogno di queste cose".

Il Riccardo che porti in scena è un personaggio complicato, ironico, tormentato. Qual'é stato l'approccio per questo ruolo? O meglio, qual è il tuo rapporto con questo personaggio?

Goretti05"I personaggi di Lucia sono una serie di stratificazioni, è talmente lungo il lavoro di prove, che fai in tempo a vederci tutte le sfumature che vuoi. Però, come suggerisce il fatto che il personaggio abbia il mio stesso nome, i suoi personaggi sono tutti variazioni sul tema di te stesso. Per lei è importante che ci sia l'uomo dentro il personaggio, a partire da leggerezze come quella di metterci una frase dei Rush, una band a cui sono particolarmente legato, fino a cose più serie come l'ossessione per il passato e per la nostalgia, che è una cosa che sento molto vicina a me. L'universo Calamaro non ti investe e ricopre completamente, ma viene incontro al tuo universo, fondendosi con la tua materia. Non sei realmente tu il soggetto che va in scena e mentre scopri lati nuovi del personaggio, ne scopri nuovi di te stesso. Lei poi ha un'immagine del personaggio che è un'immagine malleabile. Questo fa sì che sia impossibile tu vada in scena con qualcosa di cui non sei convinto. Cosa per me è fondamentale".

"La vita ferma", "Gobbo a mattoni", poi "Getalive", "L'amore è tutto qui", ma anche "That's all folks!" e "Il pescespada non esiste". Ti trovi meglio davantia una platea, una macchina da presa, o una macchina da scrivere?

"Sicuramente non davanti alla macchina da presa. Quello lo faccio perché ogni tanto me lo chiedono, e deve essere qualcosa che sento. "Sogni di gloria" di Snellinberg è stato il mio unico lungometraggio, è andato benissimo e toccava temi che mi piacevano. Anche per "L'amore è tutto qui" di Cinematica Film vale lo stesso discorso: sono quei piccoli figli di Monicelli o del primo Benigni che se mi coinvolgi è impossibile che venga male, perché è nel mio DNA. Stesso discorso per “Getalive”, perché se mi propongono una serie TV sui giochi di ruolo, beh io sono un nerd quindi mi ci sono buttato senza nemmeno pensarci! Davanti alla macchina da scrivere mi sento a mio agio, ma come hobby. Mi piace se ho due giornate libere e allora, visto che a volte mi appunto idee per dei racconti, li butto giù, li scrivo, mi ci diverto. Diventa differente il discorso se devo scrivere per il teatro, quello non è propriamente un hobby (ride, ndr).
Quindi per rispondere alla tua domanda: mi trovo meglio davanti alla platea".

Tra tutti questi progetti e spettacoli, ce n'è uno a cui sei legato in particolare?

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"Sì, "Annunziata detta Nancy", il primo spettacolo che ho fatto all'uscita dal gruppo Gli Omini, era un periodo molto difficile. Fu come uscire dagli Iron Maiden: non è detto che i fan ti seguano se fai il disco solista. Quello è stato un monologo che ho fatto proprio basandomi su quello che avevo voglia di fare e in quel momento volevo stare con la mia famiglia, che negli anni avevo trascurato. È un monologo fatto sulla storia della mia famiglia, in particolare sulla figura di mia nonna, l'Annunziata del titolo, che purtroppo è morta un mese fa. Quello spettacolo mi ha dato conferma che a teatro se fai una cosa per te, se non pensi a nient'altro che alla tua stessa volontà umana e artistica, non puoi fallire. Ora dovrò rifarlo per la prima volta dopo la morte di mia nonna, non so se ci riuscirò".

Tra spettacoli, webseries e libri sarebbe impossibile predire la tua prossima mossa. Quali sono i tuoi progetti futuri?

"C'è questo progetto che stiamo tentando di mettere in piedi con Stefano Cenci, con la collaborazione di Oscar De Summa, ma siamo ancora in alto mare. Spero anche di continuare a lavorare con Lucia perché, sarà pure massacrante, ma è qualcosa di fantastico. Poi, visto che l'ultimo progetto che ho curato da solo risale a diversi anni fa, "Essere Emanuele Miriati" del 2013, avrei voglia di riprendermi quello spazio di libertà in cui decido tutto in autonomia, testo e messa in scena. Non so quando, ma succederà.
Dopo "La vita ferma" tornerò a Roma lunedì 22 maggio con "Gobbo a mattoni" al Teatro Argot.

Riccardo Bassetti 13/05/2017

Gianni Clementi incontra Recensito per parlare del suo "Eppur mi son scordato di me"

Gianni Clementi: “il segreto sta nel creare l’empatia con il pubblico e io lo faccio attraverso una comicità brillante, mai fine a se stessa”

Roma - “Eppur mi son scordato di me”, che dal 10 al 14 maggio sarà sul palcoscenico del teatro Vittoria di Roma, è l’opera di Gianni Clementi, diretta e interpretata da Paolo Triestino. Non è un testo qualsiasi ma lo specchio di due generazioni, quella di ieri e di oggi; è una colonna sonora leggera e divertente come quella del protagonista Antonio che, da “personale”, diventa “collettiva” perché racconta una parte di noi, dei nostri dolori, delle nostre gioie, della nostra vita.

Quando è nata quest’opera e, durante la sua stesura, pensavi già a chi avrebbe interpretato la parte di Antonio, il protagonista?
“L’idea di questo testo in cui la storia incontra la Storia, mi frullava in mente da tempo. Lo stesso Paolo Triestino mi aveva chiesto se fossi disposto a scrivergli un monologo. Ho aderito così alla sua richiesta convinto che fosse proprio lui l’attore/regista più adatto”.

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Il vostro sodalizio artistico è, infatti, appurato. Lavori bene con lui?
“Con Paolo ho fatto vari spettacoli tra cui “Grisù, Giuseppe e Maria”, “Ben Hur” e “Fausto e gli sciacalli”. La collaborazione va avanti da anni, con lui si lavora bene, ho stima di lui e penso che la cosa sia reciproca. In particolar modo in questo spettacolo, Paolo sfoggia il suo talento artistico: sa calarsi nella parte, riesce a far rivivere una generazione attraverso la sua versatilità, a interpretare una carrellata di personaggi (il chirurgo, il cognato, l’amico, la moglie Francesca, il ristoratore...) modulando con abilità la sua voce, intonando canzoni mentre si accompagna con la sua chitarra”.

In effetti la musica è un fattore rilevante in questo testo: Battisti è la colonna sonora di Antonio ma in fondo finisce per essere anche quella dello spettatore. Perché la scelta di Lucio Battisti e le sue canzoni?
“La musica di Battisti è stata un po’ la colonna sonora della nostra vita, almeno per quelli della mia età. Anche se in realtà mi rendo conto che Battisti sia molto trasversale: le mie figlie ventenni lo amano molto! Lucio è stato un vero e proprio precursore dal punto di vista musicale. Per non parlare dell’accoppiata Lucio/Mogol che ha prodotto risultati eccellenti. Le sue musiche e i suoi testi non sono assolutamente datati, non possono “passare di moda”. Quindi la scelta è stata naturale. Bisogna senz’altro considerare che, da questo punto di vista, possiamo ritenerci fortunati: la nostra generazione è cresciuta con de Gregori, Guccini, De André ... Avevamo un’ampia gamma di artisti significativi, però Battisti, forse perché personaggio anche abbastanza controverso, talvolta indecifrabile, è apparso sempre più affascinante rispetto ai cantautori sopracitati”.

Anche in questa commedia, come in altri suoi testi precedenti, si ride, si ride di gusto pur affrontando tematiche serie, il bene e il male, questioni sociali di forte attualità. Come vivi il tuo rapporto con la contemporaneità e in relazione a questa in che modo concepisci la tua scrittura?
“Penso si possa parlare di qualsiasi argomento in modi assai diversi. Io ho scelto sempre la via della tragicommedia che è un po’ il mio stile di scrittura. Sostengo che se tu riesci a far sedere lo spettatore a tavola con te allora puoi sferrare il cazzotto, “il cazzotto se lo becca tutto ed è quasi pure contento”. Insomma, va creata l’empatia con il pubblico. Tento così di scrivere cose che non abbiano una comicità fine a se stessa usando dialoghi brillanti e scherzosi per toccare comunque temi di una certa rilevanza sociale, argomenti che coinvolgono un po’ tutti. In “Eppur mi son scordato di me” viene affrontata la volgarità dei nostri tempi. Ho provato a ripescare nel vissuto della nostra generazione la spinta ideale che ha segnato un’epoca e che molti, purtroppo, hanno dimenticato. E penso che la nostra sia una generazione fallimentare, ha venduto un po’ se stessa e i nostri figli ne stanno pagando le conseguenze”.

Per citare Battisti, “se ti ritornassi in mente” tu cosa cambieresti e che messaggio positivo ti senti di lasciare ai giovani d’oggi?
“Mi piacerebbe che la nostra generazione avesse preso un’altra piega. Scrissi nei primi anni Duemila “Le belle notti” in cui parlo dell’occupazione di un liceo nel ‘69. Trent’anni dopo, i figli degli occupanti raccontano che cosa sono diventati i loro padri: un disastro. A un certo punto srotolano uno striscione sul quale c’è scritto uno slogan emblematico del movimento studentesco: “non fidatevi mai di chi ha più di trent’anni”. Ahimè, penso sia abbastanza vero. L’uomo cambia. Lo vedo. Giro per strada e noto che già i quarantenni hanno visi crucciati, attraversati da pensieri cupi. Sembrerò banale, ma il segreto sta nel non soffocare mai il fanciullino che sta dentro di noi. Solo con uno spirito puro e sempre con un pizzico di ingenuità e stupore, la speranza e la bellezza non moriranno mai.

Penelope Crostelli 13/05/2017

Leggi l'intervista a Paolo Triestinohttps://www.recensito.net/rubriche/interviste/eppur-mi-son-scordato-di-me-intervista-all-attore-e-regista-paolo-triestino.html

Cross the Streets: 40 anni di Street Art al MACRO di Roma. La vogliamo chiamare ancora Street Art quella nei musei?

Quando cominciò a diffondersi la pratica del writing alla fine degli anni Sessanta tra Philadelphia e New York la si poteva soltanto vedere nei sobborghi delle zone metropolitane più misere e ghettizzate, quelle fatte di vagoni, pareti sudicie e carrozzerie di automobili. Questo perché dalla seconda metà degli anni Settanta le vernici spray innescarono più facilmente la diffusione del graffitismo in virtù del nuovo mezzo pratico rispetto a ciò che prima veniva utilizzato, cioè barattoli di vernice e pennelli. Da allora con le bombolette è diventato più facile saltare le staccionate, scappare via con la propria arma in mano, riprendere il lavoro poco dopo, girare l’angolo in fretta. La bomboletta spray insomma caratterizza la tecnica e la stregua del writing confluì immediatamente nelle attitudini del movimento hip hop, che comprendeva la cultura del b-boy, quella del djing e del rap.cross

La street art, nata in un contesto completamente diverso e più vago, ha visto nel medesimo ambiente urbano le origini, ma ne incontra immediatamente dei responsi e delle motivazioni diverse nelle tecniche e nelle poetiche rispetto al writing. Mentre la street art è più comunemente riconducibile a uno sfruttamento del mezzo urbano per l’artista che decide di utilizzare “anche” (!) lo spazio pubblico, per entrambe le figure, quelle del writer e dello street-artist - è bene sottolinearlo - sta nel rapporto tela=città che rende identitaria la loro opera. Scrivere il proprio nome ovunque, dalle strade ai vagoni che viaggiano, lascia nell’artista/writer (se si tratta di artista) e nel mezzo che porta la sua firma, la presenza di una traccia del passaggio, di un grido ghettizzato, di una forma di protesta. Almeno una volta, quando nacque tanti anni fa.
Lasciare su una parete, un silos, un palazzo, o su un pezzo di strada un’opera d’arte, rende palpabilmente differente l’impatto visivo sul luogo, ha per lo più un significato, specialmente contestuale, che rende lo street artist degno di nota per tutti e questa forma d’arte consolidata.

Una delle onorate tematiche che si tratteranno nelle attività in corso alla maestosa mostra romana del MACRO - Cross the Streets - è che ancora oggi la legalità di queste modalità sono discusse e ancora in critiche condizioni per la labilità con cui un pezzo di arte urbana può considerarsi arte e allo stesso tempo imbrattamento del suolo pubblico.

Ma se in entrambe le procedure abbiamo chiarito le differenze per motivazioni, origini e tecniche, sappiamo bene che a ogni forma d’arte che sia stata o meno di controcultura ne corrisponde sempre qualcuno di turno che deve farci su un business. Siamo giunti però a un livello di lobotomizzazione dello spettatore, tale da essere disposto a pagare per quello che può tranquillamente vedere per strada, perché è nella strada che nasce, nella strada che eventualmente muore, ma soprattutto è per la strada che una qualunque opera d’arte urbana esiste e ha senso. Sembra quasi banale doverlo scrivere, ma evidentemente è ancora necessario farlo.

cross2Le opere in mostra per quanto bellissime e alcune anche immense, si sono rese completamente avulse dalle motivazioni che le hanno rese grandi. E questo è un problema di mediocrità sia del curatore che dovrebbe parlare all’amor proprio di tutti e infine dello spettatore che a quanto pare apprezza un’opera del genere quando deve pagare per vederla.

Al piano inferiore sono messe insieme opere di street art, solo per fare alcuni nomi tra i migliori Lucamaleonte, Sten&Lex, JBRock e il superquotato Shepard Fairey aka Obey Giant. La storia di Keith Haring Deleted a Roma documentata all’epoca da Stefano Fontebasso De Martino e curata da Claudio Crescentini. Poi qualche discutibilissima opera surreal pop, per dire il nome di Mark Ryden, di cui si poteva anche fare a meno. Nel piano superiore la retrospettiva parte dal contesto urbano del “Writing a Roma 1979-2017” curata da Christian Omodeo, fino al viaggio attraverso il mondo punk/skater con una galleria di foto, poster e adesivi e un sottofondo fugaziano per vedere una pseudo-collezione delle opere di Glen Friedman. In tutto cinquanta autori miscellanei.

Un anno fa purtroppo Blu ci ha insegnato che la bellezza dell’arte urbana è un bellissimo apparato effimero, che chiunque può creare e distruggere. Per protesta all’oscenità di una mostra allestita a Palazzo Pepoli di Bologna, ha cancellato tutte le sue opere ultraventennali sui muri e ha fatto innescare la medesima azione ad altri artisti. Come un lutto la città ha perso i suoi colori divenuti ormai caratteristici. Certo, in questo caso non si parla per fortuna di una colossale decontestualizzazione come quella voluta all’epoca dal Chia.mo Roversi Monaco - che fece staccare letteralmente i murales dalla strada per esporli alla mostra - ma per certi versi se bisogna parlare di buona riuscita sul genere tanto valgono i festival di street art che almeno esprimono nella tecnica urbana del buon site-specific e amen.cross4

È un bene parlarne come attenuante quindi, si tratta perlopiù di pezzi su tela, installazioni, oppure opere create sul posto. La mostra è una grandiosa esposizione di bellissimi, storici e iconici pezzi di artisti ormai quotati e inseriti nel mercato. Il pretesto di giustificare tutto questo in una grande retrospettiva rende comprensibili le scelte artistiche curatoriali, che comunque non sono state in grado di rispondere alle stesse controversie che provocano.

E allora siamo più chiari: viva la street art, viva chi l’ha inventata e viva chi è riuscito a monetizzarci su. Non è stato mica tanto semplice capirlo. Basta allora parlare di controcultura e riempirci la bocca di significati concettuali che non esistono e non dovrebbero esistere; basta parlare pure di street art, di chiamarla “street art”. Quelli che la fanno veramente sono fuori o non esistono. O forse dovremmo ribaltare tutto lo schema semantico per cui la street art non è altro che un’invenzione della critica per scriverci altre 6457 battute.

Cross the Streets raccoglie e racconta 40 anni di Street Art e Writing al MACRO di Roma. La mostra sarà aperta al pubblico dal 7 maggio all’1 ottobre 2017.
Paulo Von Vocano curatore della mostra; Claudio Crescentini curatore e storico dell’arte del MACRO; Christian Omodeo curatore della sezione "Writing a Roma 1979, 2017"; Alexandra Mazzanti curatrice di “Pop surrealism” e Rita Luchetti Bartoli curatrice di “Fuck You All” di Glen Friedman.

Emanuela Platania 11/05/2017

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