Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 656

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 638

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 636

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 655

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 633

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 645

ARF!: il resoconto di un festival tra mostre e grandi nomi

Un incontro annuale in cui curiosare e scoprire sempre nuove curiosità sul mondo del fumetto. Si è conclusa l'ultima domenica di maggio l’ultima delle tre giornate dedicate all’Arf – il Festival del Fumetto d’Autore – tenutosi nell’ampio spazio de La Pelanda dell’ex mattatoio, oggi sede del MACRO – Museo d’Arte Contemporanea.
Nata dalla mente di Daniele Bonomo, Paolo Campana, Stefano Piccoli, Mauro Uzzeo e Fabrizio Verrocchi, l’ARF giunge quest’anno alla sua terza edizione, in cui l’omogenea presenza di grandi artisti, esposizioni e stand da consultare lasciano accrescere l’interesse verso un mondo che attira adulti e bambini.

Una giornata intensa e ricca di avvenimenti interessanti in cui è stato dato spazio anche ai grandi nomi attraverso una serie di mostre protagoniste di questa edizione di ARF 2017.
A cominciare da “Grandi Poteri” e la sua autrice Sara Pichelli. Vincitrice del prestigioso Eagle Award nel 2011, è stata ideatrice – insieme allo sceneggiatore Brian Michael Bendis – da vita al personaggio di Miles Morales in “Ultimate Spiderman”. Una mostra in cui emerge il percorso dell’artista nel genere supereroistico. Iniziato dieci anni fa il suo percorso è collegato ad una «ragnatela che che intreccia avventure e superpoteri» come lei stessa ha affermato.
Altra interessante parentesi artistica è stata l’esposizione “Storie di fumetti, colori e altri incubi” dedicata ai lavori di Luigi “Gigi” Cavenago. Disegni della serie e fumetti “Cassidy” per poi passare attraverso la fantascienza di serie a fumetti “Orfani”(ideata da Recchioni e Mammucari), fino ad arrivare all’indagatore dell’incubo di Craven Road che da trent’anni è considerato un cult dell’ horror italiano. Un passaggio di testimone in cui Cavenago sostituisce Stano e i suoi tratti espressionisti senza rinunciare alla sua espressività grafica fatta di colori vividi e ombre marcate. Arf3
Arf2Nel panorama artistico del Festival sono state le parole del direttore della Galerie Glénat, Julien Brugeas a introdurre gli appassionati nell’universo di “Mickey”. Una mostra presentata a Parigi lo scorso dicembre è approdata all’ARF in cui attraverso la raccolta delle tavole originali dei più celebri protagonisti del mondo del fumetto: l’autore svizzero Bernard Cosey e dei francesi Régis Loisel e Nicolas Keramidas. Una reinterpretazione di un classico senza tempo in cui «questi quattro autori si mettono al lavoro disegnando delle storie originali d’ispirazione romantica, stravagante o nostalgica. La libertà che gli viene concessa permette loro di rivisitare completamente il carattere estetico dei personaggi, dando un nuovo slancio creativo all’universo di Topolino, Paperino & Co».
Infine, è stata allestita anche una piccola esposizione sulla vincitrice della prima edizione del Premio Bartoli come promessa del fumetto italiano, Bianca Bagnarelli. Una mostra che fa da piccola anticamera a quella del maestro dell’eros Milo Manara, entrambe visitabili fino al 9 luglio. “Splinters. Frammenti dell’immaginario” è qualcosa di raffinato e lineare. Lo stile di un nuovo talento italiano che crede ci sia nei fumetti «qualcosa che li rende diversi da tutto il resto, una magia che li rende immuni alla scienza esatta che può essere applicata a un’immagine singola».

Durante tutto il Festival sono stati presenti circa trenta espositori con tutta una serie di autori e opere con possibilità di acquisto, un’area riservata alla letteratura fumettistica dei più piccoli (ARF! Kids) e “Masterclarf”, una serie di otto appuntamenti didattici per imparare a disegnare e comprendere tutto ciò che si trova dietro la professione di fumettista insieme a: Tito Faraci (Disney), Zerocalcare, Rita Petruccioli, Giuseppe Palumbo (Astorina/Diabolik), Diego Cajelli (Sergio Bonelli) oltre agli stessi autori in mostra Gigi Cavenago e Sara Pichelli. Inoltre, durante le tre giornate sono state organizzate delle lectio magistralis in cui importanti nomi del settore hanno parlato della loro esperienza e delle loro preferenze stilistiche. L’ultima giornata è stata la volta del maestro Paolo Eleuteri Serpieri che ha parlato di come utilizzi la sua provenienza dal mondo pittorico per dare ai suoi personaggi un certo realismo. Un autore che ricerca il realismo della propria storia all’interno della settima arte, sfruttando le luci e le ombre per fare in modo che l’illustrazione rappresenti qualcosa di più.
Infine, per tutte e tre le giornate, si sono susseguiti una serie di circa diciotto incontri in cui si è parlato di come l’avvento del digitale abbia contribuito nella più immediata creazione dei fumetti e come l’utilizzo dei social abbia modificato le differenti strategie editoriali. Passando per le contaminazioni che attraversano il fumetto d’autore e indipendente si è passati a come le storie “puramente grafiche” prendono vita sui grandi schermi cinematografici e, a concludere questa terza edizione è stato un discorso sulla divinità e su come la religione influenzi artisti e storie. Come essa prenda vita all’interno dei fumetti, attraverso blasfemia, intuizioni grafiche e sano umorismo.

Paola Smurra 02/06/2017

Orelle presenta “Argo”, un album tra jazz, pop e... canti di sirene

Orelle è Elisabetta Pasquale, una giovane polistrumentista pugliese con un curriculum già nutrito. Dopo il primo premio al Cagnano Living Festival nel 2012, ha aperto i live di artisti come Nada, Cristiano Godano, Erica Mou e Nicolò Carnesi. Lo scorso 28 aprile ha pubblicato per Black Candy Records il suo primo lavoro, “Argo” (insieme a lei Domenico Cartago al pianoforte e Luca Abbattista alla batteria), che segue di due anni l’EP “Primulae Radix”. Il Orelleargo2nuovo album si fregia della collaborazione di artisti del calibro di Dimartino e Fabrizio Bosso, per disegnare un percorso tra sonorità jazz e melodie pop, sensazioni condivise ed enigmi privati, in cui l’ascoltatore si mette comodo non per raggiungere una meta, ma «per la stessa ragione del viaggio: viaggiare». Recensito l’ha incontrata per una lunga chiacchierata sull’esperienza del cantautorato, sulla musica di ieri e quella di oggi.

Come definisci la tua musica?
"Penso che sia una musica con melodie pop, ma con attitudine jazz. Specifico “attitudine”, perché ricorda il jazz, senza esserlo: il suono acustico, il contrabbasso e alcuni colori. Quindi pop nelle melodie, però con un’impronta jazz nel cercare delle scappatoie e rendere i brani più di ampio respiro, anche durante la fase di scrittura.

Tra le tue collaborazioni ricordiamo anche quella con Erica Mou, tua coetanea, nonché concittadina. Ritrovi delle affinità con lei?
Ritrovo affinità tra Erica e la prima me. Abbiamo avuto lo stesso tipo di ascolti per un determinato periodo, poi le mie esperienze e conoscenze mi hanno fatto virare verso un altro genere, ma credo sia normale. Naturalmente, nel momento in cui scrivo mi ritrovo molto in lei: anch’io scrivo per chitarra e voce, però in testa ho un’immagine e un’impostazione più da band. Durante i concerti tendo a dare più spazio ai musicisti, perché dalla dimensione compositiva all’esecuzione live la differenza è abissale. Anche negli arrangiamenti, ad esempio, ci ritroviamo tutti insieme, ognuno con il proprio bagaglio di ascolti: si crea un meltin’ pot speciale e molto divertente".

Qualche tempo fa hai eseguito una cover di “In Bloom” dei Nirvana. Ci sono dei riferimenti musicali che non affiorano nelle tue canzoni?
"Credo che, in linea di massima, qualsiasi grande nome del rock, del jazz o del pop, mi abbia influenzata. Sono nata nel 1990: ero una bambina quando i Nirvana sono emersi, ma la loro irruenza espressiva e musicale è riuscita a raggiungere me e miei coetanei anche a distanza di anni. Ho capito come il grunge sia una musica di fortissimo impatto, semplice da un punto di vista della costruzione, ma capace di condensare rabbia e disagio e arrivare dritta come un pugno. Mi sono ritrovata, a tredici-quattordici anni, a confrontarmi con Nirvana, Soundgarden e Pearl Jam, quando pensavo che il massimo del rock fosse Ligabue! Sono gruppi che hanno accompagnato un periodo di formazione musicale personale, ma che non ho abbandonato neppure dopo. Ritorno periodicamente a questi ascolti e, ancora oggi, mi sembrano una boccata d’aria fresca, un modo per non dimenticare che la mia radice resta sempre quella. Una musica che, anche se ascoltata a distanza di anni, è sempre in grado di darti qualcosa di nuovo. È quasi inspiegabile. La morte di Chris Cornell, ad esempio, è stata un duro colpo: lo immaginavo come un ex fidanzato a cui si telefona di rado per sapere se va tutto bene".

Con le dovute proporzioni, nel tuo album si ritrova molto di Paolo Benvegnù, sia nella linea melodica che in quella testuale. In “Moses”, contenuta nell’album del 2011 “Hermann”, lui canta: «e come Ulisse poi distruggi senza senso Troia». Una mitologia che ritorna anche nel tuo lavoro. Lui racconta di Ulisse, tu delle sirene.
"I paragoni tra la mia musica e quella di grandi artisti mi mettono un po’ in imbarazzo: c’è chi ci ha ritrovato i Radiohead di “Amnesiac”, per il particolare utilizzo della batteria, chi Tori Amos. Si tratta di artisti in cui, inevitabilmente, mi rispecchio, con cui trovo dei collegamenti, anche se remoti. Paolo Benvegnù è un gigante per me: una figura di riferimento sotto ogni aspetto, nonostante non abbia avuto i giusti riconoscimenti in ambito nazionale. Il paragone mi lusinga moltissimo e non posso negare che la mitologia sia una componente fondamentale del mio lavoro. In molti mi hanno detto di aver sentito “Argo” come un album profondamente femminile, una definizione che mi ha fatto piacere, anche se lontana dai miei intenti. Solo a posteriori ho realizzato di aver racchiuso diversi punti di vista femminili, tra cui quello delle stesse sirene, figure sempre demonizzate, mai positive. Questa è una delle mie più grandi soddisfazioni: scrivere per una donna è molto difficile, quindi lo considero un ottimo feedback e un punto di partenza per la mia scrittura futura. Con “Argo” ho toccato temi come l’attesa e il ritorno, da una parte, ma ho anche tratteggiato figure più moderne ed evolute, capaci di tirare a sé ciò che vogliono. Mi piaceva questa ambivalenza che si trasferisce anche nella scelta dei colori sonori, nel racconto della duplicità di chi da una parte aspetta, ma dall’altra è anche fautrice della conquista".

A parte il refrain di “Keep Quiet”, in quest’album canti solo in italiano, abbandonando l’inglese dei tuoi lavori precedenti. Una scelta coraggiosa che, se da una parte esclude la prospettiva di un mercato più ampio, dall’altra rivela una tua forte convinzione.
"Sì, è così. Nella mia prima fase di scrittura ho provato a scrivere in inglese, con risultati anche soddisfacenti, ma amo le sfide e concentrarmi sull’italiano è stato anche un modo per approfondire una conoscenza, tanto linguistica, quanto del mercato musicale. Il mio intento, quindi, è di cantare in italiano anche per valorizzare la parte strumentale: mi piace sperimentare con la musica e la combinazione con un testo in inglese rischiava di risultare troppo ostica. La mia è stata una scelta di “esclusività”, ma in senso positivo: per questo lavoro ho deciso di trovare un target preciso, in cui un testo fruibile a tutti potesse veicolare un ascolto più approfondito e dei riferimenti musicali molto specifici. Anche in questo caso si ripropone la duplicità di cui parlavo prima: di trainare o essere trainati".

“Fossile” è un brano in cui sono evidenti le suggestioni trip hop. È esemplificativo della tua versatilità?
“Argo, la sesta traccia, funge da spartiacque tra una prima parte del disco più sognante e con bpm più bassi e una seconda parte in cui i brani tendono a essere più veloci e forti, fino ad arrivare a “Polo Nord”. Gli ascolti trip hop ci sono: i Portishead, che adoro, i Massive Attack e alcune fasi dei Radiohead. È un genere che mi affascina tanto, al punto da essere ancora più presente nelle nuove cose che sto scrivendo: apre un mondo meravigliosamente dinamico, perché una volta data la base ritmica, il cantato può essere molto più libero. Il fatto che abbia scelto quel brano per un riferimento musicale di questo tipo non è un caso: è il brano dedicato a mia madre e quel mood musicale, in cui qualcosa di dolce incontra qualcosa di concreto, mi sembrava la rappresentasse molto bene".

La decima traccia di “Argo” si intitola “Roma bianca”. È per caso un riferimento a Dostoevskij?
"No, in realtà è solo un riferimento personale: era l’immagie di una Roma realmente bianca perché innevata. Era un riferimento cromatico a un momento sentimentale non felicissimo. Tra l’altro, questo è uno dei brani più vecchi del disco ed ero piuttosto riluttante all’idea di inserirlo in “Argo”. Inizialmente avevo anche pensato di modificare il titolo, di renderlo più enigmatico e più “distante” da me, ma poi ho capito come semplicità e spontaneità fossero la sua forza e, in realtà, si amalgamasse molto bene con le altre tracce".

Guardando alla tua regione, la Puglia, si nota un grande fermento negli ultimi anni, tra manifestazioni di respiro internazionale, come il Medimex, e altre, recentissime e nate con intenti più “ludici”, come il Cellamare Music Festival. Ci sono dei nomi o una scena che segui con particolare interesse?
"Mi sono approcciata al jazz da poco, quindi seguo con entusiasmo tutta la scena nazionale. In Puglia, però, trovo che ci sia un numero di artisti maggiore rispetto ad altre regioni. Sembra quasi che il periodo sconfortante sul piano economico e politico che stiamo attraversando già da qualche anno abbia generato una risposta in controtendenza. È innegabile: l’ambito della cultura è molto penalizzato e la mancanza di mezzi e risorse finanziarie incide. In Puglia, però, mi sembra di vedere una grandissima determinazione, una volontà molto forte di continuare a produrre cose di qualità. E questo fermento non può che essere stimolo e linfa vitale per tutti gli artisti".

Letizia Dabramo 01/06/2017

Foto: Claudia Cataldi; Giovanni Albore

In Movimento: i nuovi orizzonti della danza contemporanea al Teatro Eliseo

Dal 22 al 28 maggio il Teatro Eliseo ha aperto la scena a “In Movimento”, animando il cuore di Roma con un “frullatore” di appuntamenti e incontri. Un bel risultato per la direttrice del progetto, la manager Valentina Marini, che anche quest’anno continua la sua opera di avvicinamento alla danza contemporanea, spaziando tra i generi, le nazionalità, i linguaggi. La sala gremita di giovani, studenti e allievi, è del resto la riprova della volontà, sottesa all’intero progetto, di offrire uno scorcio il più variegato possibile delle diverse espressioni che lo compongono,dall’Italia alla Spagna, dalla Svezia a Israele.
Ed è Israele ad aprire la rassegna di quest’anno, con “Mr. Gaga” di Tomer Heymann, film-documentario e ritratto lirico del coreografo Ohad Naharin: direttore artistico della Batsheva Dance Company di Tel Aviv, Naharin è l’inventore di quel particolare linguaggio del corpo che va sotto il nome di “Gaga”, una tecnica che vuole essere un ritorno all’istinto, all’origine del movimento, partendo dalla comprensione del corpo e dei suoi limiti al fine di superarli. Un linguaggio che, tuttavia, viene indagato solo a metà da Heymann, lasciato sullo sfondo rispetto al vero personaggio principale, la figura del coreografo, personalità irrequieta e anticonformista sempre in movimento, da un maestro all’altro, da Martha Graham a Maurice Bejart, da New York a Tel Aviv. Filmati di famiglia e scene girate in super 8 si alternano a spezzoni di interviste, con continua slittamenti tra passato e presente. Filo conduttore, collante che tiene insieme la compagine variegata del film, è la voce di Naharin stesso nell’atto di raccontare la propria vita, dalla New York anni ’70, vera e propria mecca della danza, alla nomina a direttore artistico della Batsheva. Finita la visione risulta difficile non confrontarlo con il più noto “Pina” di Wim Wenders, notando la netta prevalenza accordata da Heymann alla componente biografica rispetto al lavoro artistico in senso stretto. Una scelta registica che comunque non compromette il risultato finale del film: far avvicinare chiunque, anche un pubblico di “illetterati”completamente digiuno di danza, a questa affascinante figura, tra le più innovative degli ultimi anni.
Tra queste figure si inserisce anche Emanuele Soavi il fondatore di Kompact Wolfang Voigt che, attraverso leInMovimento3 musiche sensoriali create da Stefan Bohne, analizza l’incompletezza della natura umana. Con lo spettacolo PAN/remastered il coreografo italiano attua una vera e propria trasposizione della figura mitologica del dio Pan nel mondo contemporaneo. Il riferimento al mito greco porta a riflettere bruscamente sui sistemi psichici consci e inconsci di cui è intrisa la società attuale. La storia del dio, costretto in un corpo caprino che non gli appartiene, viene raccontata da una danza priva di tecnicismi ma fatta, al contrario, di gesti animaleschi e istinti che rimandano a una dimensione primordiale. La linea drammaturgica dello spettacolo ruota principalmente intorno alla sfera sessuale le cui sollecitazioni, pur risiedendo naturalmente in ogni uomo, spesso restano misteriosamente nascoste. Nella coreografia si legge chiaramente la metafora del noto flauto di Pan, costruito tagliando un giunco di canna in tanti pezzi diversi e legandoli tra di loro. Allo stesso modo Soavi crea una bambola di pezza che diventa l’oggetto impassibile del suo piacere. Unendo pezzi di stoffa trova il modo di concretizzare ogni suo impulso e liberare tutta la sua carica erotica. Così un braccio, una gamba, una spalla prendono vita e danzano insieme a lui intorno al fulcro della scenografia, un enorme fallo di plastica posto al centro del palcoscenico. Dietro la volgarità delle movenze si nasconde la repressione delle inclinazioni sessuali. Intrappolato in un limbo che segna il confine tra il mondo animale e quello divino, Pan lotta continuamente con la doppia natura del suo aspetto. Solamente nel finale Soavi-uomo sembra prendere una posizione costruendo sul suo stesso viso una maschera di cera dalle sembianze caprine. È la scelta dell’uomo di sfuggire alla razionalità, alla logica, ai doveri e ai pregiudizi.
InMovimento2Sul finale della rassegna il collettivo “democratico” Dancing Partners, progetto avviato in rete nel 2013, che pone la danza al di sopra di tutto: non più la singola compagnia, o il singolo artista che monopolizza l'intera serata, ma uno spettacolo dalle molte teste e i molti volti, un gruppo di coreografi, ognuno con la sua specificità, impegnato a dividersi palcoscenico e pubblico. Ad aprire le danze è la Spellbound Contemporary Ballet, compagnia italiana sperimentale fondata nel ’94 da Mauro Astolfi, che porta in scena "Mysterious Engine” e pone lo spettatore davanti all’espressione fisica di una condizione di “non libertà” degli uomini e ad un uso del corpo non narrativo, ma incentrato piuttosto sull’energia allo scopo di creare emozioni. I danzatori danno vita a vere e proprie geometrie in un’atmosfera vuota, in assenza totale di scenografia, resa ancora più inquietante dal gioco di luci. Le difficoltà insite nei rapporti di coppia, nel confronto tra uomo e donna, sono invece alla base del duetto “Small Crime”, la seconda perfomance in cui i ballerini della Spellbound Maria Cossu e Giovanni La Rocca si cercano e si perdono, si rincorrono per poi ritrovarsi, indagando le conseguenze di chi compie il “piccolo crimine” di entrare a forza nella vita di un’altra persona.
Tra le due performance si inserisce “and so it is...” l’assolo di Adi Salant, che porta avanti, integrandolo, il discorso iniziato da Heymann con “Mr. Gaga”. Ecco allora che la co-direttrice della Batsheva Dance Company, illuminata da un cono di luce, le braccia protese in avanti, le spalle che ruotano lentamente, dà concretezza a quel particolare linguaggio del corpo inventato da Naharin che enfatizza l’aspetto visivo e immaginifico rispetto alla perfomance in sé. Si passa poi ai “dialoghi fisici” della compagnia spagnola Thomas Noone Dance. In “Breathless”, due coppie instaurano un discorso corporeo che spesso e volentieri ha l’aspetto di una lite, in cui ognuno degli interlocutori, uomini o donne, tenta di prevalere sull’altro.
In Movimento si chiude con “AB3”, una forma molto particolare di teatro danza, portato in scena dalla compagnia svedese Norrdans. Nella coreografia di Martin Forsberg quattro personaggi si muovono intorno ad un oggetto misterioso, una torre creata con centinaia di quelli che sembrano origami di colore nero. La coreografia è un rigoroso schema matematico che gioca con i numeri ma anche con i diversi linguaggi della danza, mescolando motivi e musiche del balletto classico con altri più dichiaratamente contemporanei: il risultato è una perfomance complessa eppure divertente, misteriosa e ironica allo stesso tempo.

Desirée Corradetti, Roberta Leo 01/06/2017

Pagina 67 di 130

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM