Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 638

Orelle presenta “Argo”, un album tra jazz, pop e... canti di sirene

Orelle è Elisabetta Pasquale, una giovane polistrumentista pugliese con un curriculum già nutrito. Dopo il primo premio al Cagnano Living Festival nel 2012, ha aperto i live di artisti come Nada, Cristiano Godano, Erica Mou e Nicolò Carnesi. Lo scorso 28 aprile ha pubblicato per Black Candy Records il suo primo lavoro, “Argo” (insieme a lei Domenico Cartago al pianoforte e Luca Abbattista alla batteria), che segue di due anni l’EP “Primulae Radix”. Il Orelleargo2nuovo album si fregia della collaborazione di artisti del calibro di Dimartino e Fabrizio Bosso, per disegnare un percorso tra sonorità jazz e melodie pop, sensazioni condivise ed enigmi privati, in cui l’ascoltatore si mette comodo non per raggiungere una meta, ma «per la stessa ragione del viaggio: viaggiare». Recensito l’ha incontrata per una lunga chiacchierata sull’esperienza del cantautorato, sulla musica di ieri e quella di oggi.

Come definisci la tua musica?
"Penso che sia una musica con melodie pop, ma con attitudine jazz. Specifico “attitudine”, perché ricorda il jazz, senza esserlo: il suono acustico, il contrabbasso e alcuni colori. Quindi pop nelle melodie, però con un’impronta jazz nel cercare delle scappatoie e rendere i brani più di ampio respiro, anche durante la fase di scrittura.

Tra le tue collaborazioni ricordiamo anche quella con Erica Mou, tua coetanea, nonché concittadina. Ritrovi delle affinità con lei?
Ritrovo affinità tra Erica e la prima me. Abbiamo avuto lo stesso tipo di ascolti per un determinato periodo, poi le mie esperienze e conoscenze mi hanno fatto virare verso un altro genere, ma credo sia normale. Naturalmente, nel momento in cui scrivo mi ritrovo molto in lei: anch’io scrivo per chitarra e voce, però in testa ho un’immagine e un’impostazione più da band. Durante i concerti tendo a dare più spazio ai musicisti, perché dalla dimensione compositiva all’esecuzione live la differenza è abissale. Anche negli arrangiamenti, ad esempio, ci ritroviamo tutti insieme, ognuno con il proprio bagaglio di ascolti: si crea un meltin’ pot speciale e molto divertente".

Qualche tempo fa hai eseguito una cover di “In Bloom” dei Nirvana. Ci sono dei riferimenti musicali che non affiorano nelle tue canzoni?
"Credo che, in linea di massima, qualsiasi grande nome del rock, del jazz o del pop, mi abbia influenzata. Sono nata nel 1990: ero una bambina quando i Nirvana sono emersi, ma la loro irruenza espressiva e musicale è riuscita a raggiungere me e miei coetanei anche a distanza di anni. Ho capito come il grunge sia una musica di fortissimo impatto, semplice da un punto di vista della costruzione, ma capace di condensare rabbia e disagio e arrivare dritta come un pugno. Mi sono ritrovata, a tredici-quattordici anni, a confrontarmi con Nirvana, Soundgarden e Pearl Jam, quando pensavo che il massimo del rock fosse Ligabue! Sono gruppi che hanno accompagnato un periodo di formazione musicale personale, ma che non ho abbandonato neppure dopo. Ritorno periodicamente a questi ascolti e, ancora oggi, mi sembrano una boccata d’aria fresca, un modo per non dimenticare che la mia radice resta sempre quella. Una musica che, anche se ascoltata a distanza di anni, è sempre in grado di darti qualcosa di nuovo. È quasi inspiegabile. La morte di Chris Cornell, ad esempio, è stata un duro colpo: lo immaginavo come un ex fidanzato a cui si telefona di rado per sapere se va tutto bene".

Con le dovute proporzioni, nel tuo album si ritrova molto di Paolo Benvegnù, sia nella linea melodica che in quella testuale. In “Moses”, contenuta nell’album del 2011 “Hermann”, lui canta: «e come Ulisse poi distruggi senza senso Troia». Una mitologia che ritorna anche nel tuo lavoro. Lui racconta di Ulisse, tu delle sirene.
"I paragoni tra la mia musica e quella di grandi artisti mi mettono un po’ in imbarazzo: c’è chi ci ha ritrovato i Radiohead di “Amnesiac”, per il particolare utilizzo della batteria, chi Tori Amos. Si tratta di artisti in cui, inevitabilmente, mi rispecchio, con cui trovo dei collegamenti, anche se remoti. Paolo Benvegnù è un gigante per me: una figura di riferimento sotto ogni aspetto, nonostante non abbia avuto i giusti riconoscimenti in ambito nazionale. Il paragone mi lusinga moltissimo e non posso negare che la mitologia sia una componente fondamentale del mio lavoro. In molti mi hanno detto di aver sentito “Argo” come un album profondamente femminile, una definizione che mi ha fatto piacere, anche se lontana dai miei intenti. Solo a posteriori ho realizzato di aver racchiuso diversi punti di vista femminili, tra cui quello delle stesse sirene, figure sempre demonizzate, mai positive. Questa è una delle mie più grandi soddisfazioni: scrivere per una donna è molto difficile, quindi lo considero un ottimo feedback e un punto di partenza per la mia scrittura futura. Con “Argo” ho toccato temi come l’attesa e il ritorno, da una parte, ma ho anche tratteggiato figure più moderne ed evolute, capaci di tirare a sé ciò che vogliono. Mi piaceva questa ambivalenza che si trasferisce anche nella scelta dei colori sonori, nel racconto della duplicità di chi da una parte aspetta, ma dall’altra è anche fautrice della conquista".

A parte il refrain di “Keep Quiet”, in quest’album canti solo in italiano, abbandonando l’inglese dei tuoi lavori precedenti. Una scelta coraggiosa che, se da una parte esclude la prospettiva di un mercato più ampio, dall’altra rivela una tua forte convinzione.
"Sì, è così. Nella mia prima fase di scrittura ho provato a scrivere in inglese, con risultati anche soddisfacenti, ma amo le sfide e concentrarmi sull’italiano è stato anche un modo per approfondire una conoscenza, tanto linguistica, quanto del mercato musicale. Il mio intento, quindi, è di cantare in italiano anche per valorizzare la parte strumentale: mi piace sperimentare con la musica e la combinazione con un testo in inglese rischiava di risultare troppo ostica. La mia è stata una scelta di “esclusività”, ma in senso positivo: per questo lavoro ho deciso di trovare un target preciso, in cui un testo fruibile a tutti potesse veicolare un ascolto più approfondito e dei riferimenti musicali molto specifici. Anche in questo caso si ripropone la duplicità di cui parlavo prima: di trainare o essere trainati".

“Fossile” è un brano in cui sono evidenti le suggestioni trip hop. È esemplificativo della tua versatilità?
“Argo, la sesta traccia, funge da spartiacque tra una prima parte del disco più sognante e con bpm più bassi e una seconda parte in cui i brani tendono a essere più veloci e forti, fino ad arrivare a “Polo Nord”. Gli ascolti trip hop ci sono: i Portishead, che adoro, i Massive Attack e alcune fasi dei Radiohead. È un genere che mi affascina tanto, al punto da essere ancora più presente nelle nuove cose che sto scrivendo: apre un mondo meravigliosamente dinamico, perché una volta data la base ritmica, il cantato può essere molto più libero. Il fatto che abbia scelto quel brano per un riferimento musicale di questo tipo non è un caso: è il brano dedicato a mia madre e quel mood musicale, in cui qualcosa di dolce incontra qualcosa di concreto, mi sembrava la rappresentasse molto bene".

La decima traccia di “Argo” si intitola “Roma bianca”. È per caso un riferimento a Dostoevskij?
"No, in realtà è solo un riferimento personale: era l’immagie di una Roma realmente bianca perché innevata. Era un riferimento cromatico a un momento sentimentale non felicissimo. Tra l’altro, questo è uno dei brani più vecchi del disco ed ero piuttosto riluttante all’idea di inserirlo in “Argo”. Inizialmente avevo anche pensato di modificare il titolo, di renderlo più enigmatico e più “distante” da me, ma poi ho capito come semplicità e spontaneità fossero la sua forza e, in realtà, si amalgamasse molto bene con le altre tracce".

Guardando alla tua regione, la Puglia, si nota un grande fermento negli ultimi anni, tra manifestazioni di respiro internazionale, come il Medimex, e altre, recentissime e nate con intenti più “ludici”, come il Cellamare Music Festival. Ci sono dei nomi o una scena che segui con particolare interesse?
"Mi sono approcciata al jazz da poco, quindi seguo con entusiasmo tutta la scena nazionale. In Puglia, però, trovo che ci sia un numero di artisti maggiore rispetto ad altre regioni. Sembra quasi che il periodo sconfortante sul piano economico e politico che stiamo attraversando già da qualche anno abbia generato una risposta in controtendenza. È innegabile: l’ambito della cultura è molto penalizzato e la mancanza di mezzi e risorse finanziarie incide. In Puglia, però, mi sembra di vedere una grandissima determinazione, una volontà molto forte di continuare a produrre cose di qualità. E questo fermento non può che essere stimolo e linfa vitale per tutti gli artisti".

Letizia Dabramo 01/06/2017

Foto: Claudia Cataldi; Giovanni Albore

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM