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Meglio essere nessuno che un secondo Beethoven: l’autobiografismo sinfonico di Schumann

Mar 23

La sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica ė brulicante di persone e di entusiasmo in vista del concerto dell’Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. La magia dell’attesa sembra spezzarsi all’annuncio dell’assenza del direttore d’orchestra Daniele Gatti per motivi di salute, ma la supplenza dell’ultimo minuto non lascia affatto a desiderare: Marc Albrecht, direttore dalla consolidata esperienza nel repertorio tedesco.
Ed è proprio la Germania a farla da padrona nelle scelte musicali della serata di lunedì 21 marzo: la “Sinfonia n.2” e la “Sinfonia n.4” di Robert Schumann, intervallate dal “Canto del Destino” di Johannes Brahms.
Il concerto si apre con la seconda sinfonia del romantico tedesco per eccellenza, alla cui composizione orchestrale sono dedicate queste serate (il concerto fa infatti parte di una rassegna più ampia curata dal M Gatti che omaggia la creatività sinfonica di Schumann).
Quest’opera, come gran parte della produzione del compositore, è profondamente autobiografica: il carattere inquieto, magneticamente introverso e dai picchi drammatici improvvisi ben rappresenta la fase di depressione e straniamento attraversata da Schumann intorno al 1845. Dopo un primo tempo sospirato e un secondo movimento trepidante e giocato tra le parti nella ripetizione delle linee melodiche, il tema del dramma interiore giunge al suo culmine nel terzo tempo, una sorta di corale espressivo dall’anima lacerata. L’essenziale pulizia di questa parte ritrova vigore nel finale, con un quarto movimento dalla ritmica decisa ed esplosiva che culmina nel trionfale finale.
Il “Canto del destino” brahmsiano funge da intermezzo tra le due massicce composizioni sinfoniche. Il destino in questione è quello umano, denunciato dal finale del romanzo epistolare di “Iperione”. Non c’è speranza, non c’è redenzione per l’umanità, se non nel ritorno alla natura, all’essenza vitale del mondo e alla chiarezza primordiale. Il concetto viene bene espletato dall’orchestra, che riprende nel finale parte della sua introduzione come segno della ciclicità della vita e del pensiero, dopo aver attraversato i moti dell’animo nel canto. Dalla disperazione alla rassegnazione alla presa di coscienza, le voci sussurranti e tuonanti dei coristi guidano il pensiero tra le poetiche parole di Friedrich Hölderlin.
Il concerto si chiude con la travolgente Sinfonia n.4. E’ il pensiero nascosto dietro le note a dare continuità a un’opera che in apparenza si presenta frastagliata e in continua evoluzione. Non a caso infatti viene assimilata (anche dallo stesso compositore) alla forma della Fantasia, per la sua libertà espressiva, la sua profonda differenziazione interna e il continuo rinnovamento e sviluppo melodico e ritmico. Addentrandosi in un’analisi più intima però, si possono vedere con chiarezza le reiterazioni e gli incastri tematici, le studiate alternanze tra parti liriche e parti assertive, i delicati e millimetrici intarsi strumentali e la linearità sonora mai interrotta.
Qui risiede il genio e la potenza di Robert Schumann: nel saper rivoluzionare un genere dall’interno, nel riuscire ad intrecciare due anime apparentemente in contrasto, nel riuscire ad abbracciare lo spettatore con le emozioni senza bisogno di dargli riferimenti tangibili.

Giulia Zanichelli 23/03/2016

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