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Jessica Jones AKA “Questo è il Marvel Cinematic Universe e tu non hai le ali”

Buongiorno, fan medio delle serie televisive made in Usa, che ne diresti se ripescassimo un personaggio minore Marvel e lo facessimo interpretare a Krysten Ritter di “Don’t trust the bitch of the apartment 23” e “Breaking Bad” la cui nemesi è la decima reincarnazione del “Doctor Who,” David Tennant? “Direi che sono felice che abbiate dato un nome grazioso e anglicizzante come binge-watching a definire quello che mia madre chiama “te ne stai sempre davanti al computer, fatti una vita”. Quando cominciamo?”

Tredici puntate, cinquanta minuti l’una. Una seconda serie in arrivo e un crossover con altri personaggi del Marvel Cinematic Universe; il tutto prodotto, ovviamente, da Netflix.
Il quartiere è Hell’s Kitchen, lo stesso di “Daredevil”. Lo si può riconoscere dalla stazione di polizia o dal personale dell’ospedale, stessi luoghi e stessi attori per garantire un senso di continuità, tra le righe, c’è anche qualche riferimento a Hulk e ai film degli “Avengers” ma non vengono mai nominati direttamente.
Il ritmo, all’inizio, potrebbe risultare lento ma è in perfetto accordo con le tinte cupissime della storia e sa come dosare la tensione. D’altronde, come dice la stessa Krysten: «è prima un thriller psicologico, poi una serie sui supereroi». La storia infatti inizia quando ormai Jessica Jones (Krysten Ritter) non è più l’eroina in costume che salva il mondo con i suoi poteri: si è ritirata, fa il detective privato e deve pagare l’affitto. C’è anche il piccolo problema della convivenza con un Disturbo Post-Traumatico da Stress causato da Kilgrave (David Tennant), che ha il potere di piegare le persone al suo volere con il solo suono della sua voce. E sta proprio qui il punto di forza della serie: nonostante si parli di donne dalla forza sovrumana e uomini con poteri telecinetici, il tono è volutamente realistico. Niente mantelli svolazzanti o lampi luminosi ma, in compenso, violenza psicologica e fisica, sangue quando serve, sesso quanto occorre. Forse da questo si vede, nell’attuale passaggio del mondo dei supereroi dalla nicchia dei fumetti al mainstream di cinema e tv, ciò che permette alla Marvel di stare sempre un passo avanti alla DC: capire quando un supereroe ha bisogno di costumi, basi segrete, battutine in favore di camera e tutto ciò che ti fa venire voglia di fare grigliate in giardino il 4 Luglio chiedendo a Dio di benedire gli Stati Uniti d’America. E poi capire quando, al contrario, c’è bisogno di un sottotesto più dark, più adulto e problematico che dia al personaggio raccontato tridimensionalità e realismo, anche a costo di costringere lo spettatore a non tifare acriticamente per lui.
Jessica Jones è stata anche definita una serie femminista. Se “femminista” vuol dire che c’è una donna protagonista, che investiga e mena, riuscendo splendidamente a farlo anche senza una sexy tutina di latex, va bene, lo è. Ma, molto più realisticamente, Jessica Jones è una serie noir dove c’è una donna protagonista che investiga e mena, ma poi beve, è malinconica, sarcastica, non sa trattare con le persone e ha un passato che vuole dimenticare e con cui è costretta a fare i conti. È insomma un hard boiled a tutti gli effetti, pieno di periferie pericolose e investigatori privati con uno studio squallido e il nome scritto sulla porta. Per i fanatici delle etichette, si può dire che il femminismo sta nel fatto che se questo fosse “L.A. Confidential”, Kim Basinger non interpreterebbe Lynn Bracken ma Bud White. E avrebbe i jeans.

Eliana Rizzi 16/02/2016

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