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“Elizabeth: A Portrait in Parts”: documentario per il giubileo di una regina “re-ificata”

Dio salvi la Regina… dal Pop. A dispetto del tono complessivamente scanzonato, il ritratto – in forma di puzzle – che Roger Michell ha tracciato della monarca britannica in Elizabeth: A Portrait in Parts ha un retrogusto amaro, quasi inquietante. Partendo da una serie di dettagli concreti, anche triviali, questo documentario di montaggio – concepito per celebrare il giubileo di platino di Elisabetta II – mostra in maniera quasi tattile i risvolti di quel mestiere assurdo, e talvolta poco glamorous, che è fare la sovrana (una lunga sequenza vede Sua Maestà intenta a schiacciare bottoni durante le inaugurazioni delle fabbriche del Regno). Un lavoro che comporta il rischio di essere percepiti come simboli ambulanti, opere d’arte concettuali su due gambe.
Andato in onda su Rai 1 il 3 giugno come speciale del TG1, appesantito da spiacevoli sovra-doppiaggi, il documentario sfrutta molto liberamente i materiali audiovisivi accumulatisi nei quasi novant’anni in cui la “povera” Elisabetta è stata sottoposta allo scrutinio delle macchine da presa. Ma la Regina compare in ogni possibile forma: non solo nei filmini casalinghi o nelle riprese ufficiali, ma impressa sulle banconote e sui francobolli o dipinta dai pittori di corte; rimpiazzata dalle controfigure che la sostituiscono nelle prove delle cerimonie; scomodata dalle parodie dei comici e, infine, interpretata da fior d’attrici come Helen Mirren o Olivia Colman. Lasciando parlare le immagini senza fare sociologia spicciola, Michell ci mostra una donna diventata merce, anzi, souvenir.
Dal contrasto tra i filmati scelti, trapela la tensione tra la tridimensionalità della Elizabeth “in carne ed ossa” e la bidimensionalità dell’icona, vuota e piatta come la Marilyn di Andy Warhol. Ed è proprio la vera Marilyn a fare una breve ma straniante apparizione in uno dei video-reperti scelti da Michell, girato durante l’incontro tra la diva americana e la regnante inglese. Praticamente coetanee (Elisabetta II è nata poco più di un mese prima dell’attrice, nel 1926), non avrebbero potuto subire un destino più diverso: Marilyn è rimasta come simbolo di spontaneità e fragilità, con una carriera folgorante che ha coperto poco più di un decennio, mentre la sovrana sopravvive come baluardo di autocontrollo, nonché come fil rouge della storia di due secoli.
La natura di highlander della Regina le garantisce un invidiabile distacco dagli eventi che ha visto succedersi, con cali di popolarità e inevitabili rivalutazioni, nonché con un’alternanza di co-protagonisti che al suo confronto sembrano degli “improvvisati”: in una memorabile gaffe del 2007, George W. Bush insinua che Sua Maestà avesse celebrato l’indipendenza americana… nel 1776! Ma l’apparente immortalità di Elisabetta II è anche una condanna alla nostalgia – simbolizzata dalla rottamazione nel 1997 del panfilo "Britannia", teatro di quarantatré anni di ricordi – e al lutto: dalla morte prematura del padre Giorgio VI a quella del coniuge Filippo, che rimane però fuori dal documentario di Michell (il quale, per uno scherzo del destino, si è spento a sua volta prima dell’uscita del film).
Al di là delle singole curiosità “di costume” che il regista assembla col suo disinvolto montaggio per analogie, un altro elemento d’interesse di Elizabeth: A Portrait in Parts risiede in un’ulteriore ambivalenza: gravata fin dagli inizi del suo Regno dalle più assurde aspettative dei sudditi e del mondo (divisi da subito in fazioni tra chi la voleva più spontanea e chi più istituzionale), la sovrana è pirandellianamente “come la si vuole”. Ciascuno può trovare nella sua figura le più svariate chiavi di lettura, perché – come lei stessa dice – «la corona è più un’idea che una persona», ma quale idea non è dato sapere…
Quel che è certo è che, diretta con passo abbastanza fermo verso i 100 anni, la Regina abbia finito per incarnare un bisogno di certezze in una realtà frammentata. Contemporaneamente, Elisabetta è anche un pretesto che i popoli di tutto il mondo possono sfruttare per mostrarsi nella luce più pulita, edificante e allo stesso tempo colorata: lo testimoniano i filmati delle innumerevoli visite ufficiali, in cui gli abitanti di tutti i continenti indossano l’“abito della domenica” per rendere grazie a Sua Maestà.
In conclusione, se il documentario di Michell non riserva particolari sorprese, riesce almeno a dimostrare come la Regina, in settant’anni di onorata “carriera”, sia stata coerente nello sforzo di fare del proprio meglio. E questo in barba all’oggettificazione (anzi, re-ificazione) comportata dal suo status, che ha schiacciato molte persone a lei vicine, dalla sorella Margaret all’ex-nuora Diana.

Andrea Meroni 05/06/2022

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