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Alla fine di Teheran gli scatti di Filippo Taddei in mostra al Teatro San Teodoro di Cantù

La mostra “Alla fine di Teheran”, curata da Laura Fattorini, presenta il reportage recentemente realizzato da Filippo Taddei in Iran. Il progetto fotografico riflette sulle difficili condizioni di vita e in via di deterioramento dei migranti afgani e di altri emarginati sociali a Darvazeh Ghar, uno dei quartieri più poveri della città di Teheran, indagandone i risvolti e le complessità.
L’Afghanistan ha originato più profughi che qualsiasi altro paese nel mondo. Da quando, infatti, nel 1979, le forze dell’Armata Rossa sovietica invasero l’Afghanistan, furono più di cinque milioni le persone che, per scappare dalla guerra, trovarono rifugio nei campi profughi allestiti in Pakistan e in Iran. La guerra civile e i conflitti successivamente scoppiati hanno poi contribuito a peggiorare le condizioni di un paese che era già gravemente devastato.
A oggi sono quasi tre milioni gli afgani che vivono in Iran a causa della guerra e due milioni di questi non sono mai stati registrati come rifugiati. Vivere senza documenti significa non aver diritto ai sussidi necessari per la sopravvivenza e a non poter cercare un lavoro, quando ai bambini è negato il diritto all’istruzione. Negli ultimi anni, gli ostacoli per ottenere aiuti umanitari e servizi sociali non hanno fatto altro che aumentare.
Darvazeh Ghar è un luogo che riunisce chi non ha più la possibilità di vivere altrove o chi è inadeguatamente considerato un “illegale”. Gli afgani, particolarmente soggetti a quotidiane ingiustizie e discriminazioni, hanno qui occupato vecchie case abbandonate e le abitano in totale stato di degrado e di miseria. Gli scatti di Taddei si soffermano sulle problematiche conseguenti allo stato di estrema povertà nel quale i migranti sono costretti e su quell’universale fragilità che li ha portati all’abuso di alcol e di droga, alla prostituzione, al lavoro minorile e alla tratta di esseri umani. Accanto alla buia violenza e alle difficoltà, alle opprimenti gabbie costruite su perverse dinamiche economiche e di potere, si avverte però anche un umano segnale di speranza e di purezza che, non ancora arreso, vuole sfuggire alla condanna di un futuro incerto.
Il reportage, quindi, denuncia l’estremo fallimento degli obblighi nei confronti dei rifugiati e degli immigrati, la violazione dei diritti internazionali e le conseguenze finali della guerra. E impone uno sguardo critico che sia personale e politico.

Davide Antonio Bellalba 24/04/2018

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