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Recensito incontra Claudio Longhi e Paolo di Paolo in occasione della messa in scena dello spettacolo “La classe operaia va in paradiso”

Operazione ardua è, da sempre, cercare di trasporre sul palcoscenico di un teatro la potenza espressiva e la complessità tecnica di un film. Ci hanno provato il regista Claudio Longhi e lo scrittore Paolo Di Paolo, con l’adattamento teatrale di “La classe operaia va in paradiso” un film del 1971, nato dalla penna di Ugo Pirro e dalla regia di Elio Petri.
Con la produzione ERT (Emilia Romagna Teatro) e “liberamente ispirato al film”, questo progetto nasce da un’idea di Lino Guanciale che interpreta, anche, il personaggio Lulù, “vedevo nelle immagini del film una profezia, una rappresentazione eloquente del destino attuale del nostro paese, la capacità di tradurre sinteticamente in una sequenza di fotogrammi potentissima un'idea scomoda da accettare soprattutto a sinistra: l'alienazione è il futuro prossimo di ognuno di noi, sfruttato o sfruttatore che sia”.

Lo scorso 22 maggio, poche ore prima della messa in scena al Teatro Argentina di Roma (in programma fino a domenica 27), abbiamo incontrato il regista e direttore artistico Longhi e lo scrittore e sceneggiatore romano Di Paolo per parlare dello spettacolo (qui la recensione sulla nostra testata).

“La classe operaia va in paradiso” torna nel 2018 ma non al cinema, quanto è stato difficile restituire in teatro la sua complessità cinematografica e, in particolare, la tecnica del montaggio? Longhi1.jpg
C.L.: “La trasposizione teatrale di un film è evidentemente un’operazione difficile, ma devo ammettere che è anche un argomento che mi appassiona da molti anni, per lo meno sul piano teorico. Scrissi proprio la mia tesi di dottorato sul rapporto tra il testo teatrale e il romanzo con la categoria del montaggio.
Innanzitutto, la tecnica del montaggio ha decisamente cambiato la grammatica percettiva novecentesca. Con gli anni ci siamo abituati a guardare, ascoltare e memorizzare con un punto di vista “di montaggio”, non seguiamo più una continuità ma percepiamo l’importanza di alcuni momenti che emergono ma solo perché sono stati scelti e suturati tagliando i passaggi intermedi.
È inevitabile che poi questo abbia delle ripercussioni sulla capacità di concentrazione, che si è evoluta in una forma completamente diversa. Credo anche che il montaggio sia un modo per rispondere alla complessità della realtà, talmente complessa che è difficile raccontarla linearmente e si può percepire solo attraverso flash selezionati, tutto questo ha a che fare con il montaggio.
Riportato al teatro, ci si scontra con il fatto che la scena è uno spazio e un tempo e il montaggio è un procedimento metaforico o drammaturgicamente indotto, così, il lavoro che abbiamo fatto ha avuto inizio da questa considerazione: c’è un procedimento di montaggio e smontaggio del film per arrivare al nostro spettacolo, come se fosse passato a tutti gli effetti sotto le mani di un montatore che vi ha inserito anche materiali spuri (canzoni, poesie, brani letterari e proiezioni visive). Di volta in volta, cioè, abbiamo rimandato a delle soluzioni che potessero rimandare a quella cultura, a quell’atmosfera e alla capacità di raccontarla per via di montaggio.
E nella pratica, la scenografia, la grammatica generativa dello spazio, è legata ad un tapis roulant che per un verso riecheggia la catena di montaggio e per l’altro verso consente dei movimenti che rimandano proprio al movimento della macchina da presa. Dall’altra parte abbiamo fatto uso di schermi che sono si superfici di proiezione ma anche diaframmi di un obiettivo che chiudono sequenze, aprono sguardi, divincolandosi dalla continuità che è suggerita dallo spazio unico del palcoscenico”.

Longhi2.jpgIl teatro, proprio per la sua natura, è portatore e generatore di simboli e metafore. Come si è intrecciato questo aspetto la parte più naturalistica del cinema?
C.L.: “È chiaro che questo film, già nella sua essenza cinematografica, è continuamente in bilico tra una dimensione realistica e simbolica. Sto pensando da una parte al realismo dello sguardo della cinepresa che entra ed esplora la fabbrica con una radicalità che, al di là del giudizio che è stato dato al film, è stata rilevata da tutti.
Dall’altra anche alla dimensione simbolica: luce azzurrina del televisore caricata con una valenza espressionista che poi conferisce al televisore un valore simbolico, ne è un esempio. È il film stesso che ha questa ambivalenza e su questa ambivalenza ci è piaciuto giocare sul palcoscenico. Basti pensare che una delle interpretazioni più fortemente naturalistiche del film, mi riferisco al Militina di Salvo Randoni, sia affidato sulla scena ad un’attrice, con un travestimento e uno spostamento di genere evidentissimi, ecco un esempio della nostra volontà di non appiattirsi su un dato puramente realistico. Dopo di che c’è una dimensione simbolica che nasce puramente dal fatto che il film, come spesso succede al cinema, ha tanto esterno, e a teatro non riesci a realizzarlo se non per via simbolica. Nel film ci sono anche molte sequenze di massa, gli ingressi in fabbrica, i cortei degli studenti, sul palcoscenico tutto questo è rappresentato da un attore solo. Fisiologicamente quando si opera sul palcoscenico si deve fare leva su una dimensione simbolica che dialoga con il realismo della pellicola da cui si parte ma al tempo stesso cavalca quelle possibilità simboliche che ci sono già nel film”.

“La classe operaia va in paradiso” è un film portatore di ideali politici e critica sociale, quanto è importante questo aspetto nel vostro spettacolo e nel teatro a noi contemporaneo? Longhi3.jpg
C.L.: “Bisogna tenere sempre presente che tutto il teatro è politico solo per il fatto stesso di esistere. In particolare poi credo che davanti alla ventata di antipolitica che contraddistingue il nostro presente, ribadire l’importanza di uno sguardo politico sulla realtà attraverso il teatro sia fondamentale. Quindi se è vero che il teatro è politico sempre, non è meno vero che personalmente mi piace accentuare, rafforzare ed esplicitare questo aspetto con la convinzione che sia un modestissimo contributo che, soggettivamente e attraverso le persone che lavorano con me, possa e possiamo dare a stare un po’ meglio. Credo che sia l’obiettivo principe di ciascuno di noi”.

paolo1.jpgPer uno scrittore e sceneggiatore, invece, quanto è complesso lavorare su una sceneggiatura di un prodotto cinematografico e costruire un testo teatrale?
P.D.P: “Si hanno tecnicamente due opzioni. La prima è quella di fare un adattamento, cioè prendere una sceneggiatura già esistente e traghettarla sullo spazio scenico, cercando di mantenerla più possibile uniforme nella resa. In questo caso lo spettatore del film ritrova sulla scena lo stesso filo drammaturgico.
Ma per me questo non era interessante e nemmeno per la compagnia perché rischiavamo di appoggiarci troppo alla struttura filmica, quindi il nostro tentativo ha esplorato un’altra opzione, quella di smontare il film, tenendo il filo della trama e provare invece a lavorare sul contesto, inserendo dei fili drammaturgici inesistenti. Il risultato è un po’ destabilizzante e spiazzante; in questa operazione di montaggio e rimontaggio sono cambiate tante forze in campo e l’aspetto del contesto “pre e post” proiezione è stato l’aspetto decisivo”.

Quanto conta per il vostro pubblico non aver visto il film del 1971?
P.D.P: “Lo spettacolo è stato pensato in modo che fosse autonomo, dare una sensazione di disorientamento sì, ma senza dare assolutamente nulla per scontato. La funzione che hanno, ad esempio, ipaolo2.jpg personaggi del regista e dello sceneggiatore è didascalica, aiutano ad entrare nell’officina del film e spiegano molti elementi. Il pubblico assiste a come il film è stato costruito e ideato con tutti i dubbi che la produzione e la scrittura comporta, e viene accompagnato da loro per mano tutta la drammaturgia e la messa in scena. Abbiamo costruito, si può dire, un metacinema in funzione di metateatro.
Un altro fattore importantissimo è stato l’apporto dato dalla compagnia, il drammaturgo di compagnia è quello che scrive la sceneggiatura addosso agli attori e questo è quello che ho cercato di fare insieme al regista e agli attori”.

Marta Perroni 25/05/2018

 

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