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"Taglio cesareo. Prove sul suicidio", se il dolore è un vetro rotto

Aspettare il corso della vita o procedere a un taglio cesareo? La scelta, universalmente, evoca la nascita, ma a pensarci bene che cos'altro è il suicidio se non un intervento “chirurgico” sul corso della propria esistenza? Per anticipare la fine, per bloccare il calvario, per interrompere l'assurdità.
Lo scriveva Camus settant'anni fa ne suo “Il mito di Sisifo” che l'esistenza stessa è un'assurdità: lasciare rotolare un macigno giù da una rupe e sapere che bisognerà tornare a valle, spingerlo di nuovo in su e farlo scivolare via, così all'infinito. Ed è dalle sue riflessioni che muove lo spettacolo “Taglio cesareo. Prove sul suicidio” del Teatr Zar, all'interno del Festival della Cultura polacca a Roma.
Andato in scena il 16 e 17 giugno scorso al Teatro India ha emozionato il pubblico più esercitato e sbalordito i neofiti del genere.
Un palco abbracciato per tre lati dagli spettatori, in scena nove figure, tre performer e un'orchestra sparsa ai quattro lati della scena, tra violoncelli, violini, piano e percussioni. Di taglio (appunto) una lunga linea di vetri, che gli attori cercheranno di evitare, come nella vita si evita il dolore, ma che spesso scaveranno con le mani, sfioreranno con la gola o fino a bucarsi i piedi, quando quel dolore sarà inevitabile. Un calice di vino, i bicchieri che si riempiono, la vita bevuta in un sorso, poi quei cristalli che rotolano, quelle bottiglie che si spezzano e il vino che diventa sangue, macchia i vestiti, sporca i pavimenti, invade il grembo come dopo un taglio per partorire. La scena è cupa, intorno il buio è rotto solo dai canti liturgici corsi, che la compagnia ha studiato in loco, scegliendo poi di associarvi influenze romene, bulgare, cecene e islandesi.
Ne viene fuori un coro a volte amico, a volte struggente grido di strazio per un assurdo esistenziale che tenta di essere concluso nei più svariati modi, rasentando il grottesco.
Il regista Jaroslaw Fret mette nell'arena un uomo e due donne: amanti? Parenti? Camminano a piedi nudi portando in mano le proprie scarpe. Se le cedono, mettiti nelle mie scarpe, sembrano dire.
Forse quella che vediamo è la famiglia di Aglaja Veteranyi, scrittrice e attrice figlia di circensi che si tolse la vita gettandosi nel lago di Zurigo: lo spettacolo si ispira anche a lei.
O forse è solo la proiezione delle nostre paure, di questa vita che ti fa volare in alto, verso la luce (splendida la scena della performer che sale quasi fino al tetto del teatro), salvo poi farti precipitare giù, tra quei vetri,macerie di te stesso e di chi con te ha passato un pezzo di strada. A questo proposito emblematico è il passaggio dei due (uomo/donna) che corrono insieme in tondo, fino a un certo punto. Poi lui la lascia sola e la manipola, ora tenendola per un lembo del vestito e facendole travolgere decine di sedie che molto ricordano Café Muller, talvolta curvando di qua e di là un attaccapanni. Che cosa siamo se non esistenze fragili appese a una partitura di scambi e rapporti umani. I canti ce lo ricordano: a volte sono gravi, a volte vivaci e ritmici. A volte è solo silenzio, buio e vetri rotti.
Il Teatr Zar, teatro di ricerca, nella sua poetica si propone di porre l'arte come cuscinetto tra il trascendente e il reale, tra la religione e l'uomo, in modo da filtrare i messaggi e avvicinare i due mondo. In questa messa in scena c'è il reale del teatro “di cantiere” alla Arpad Shilling, dove sul pubblico volano pezzi di scenografia. Ci sono gli attori che a un tratto vanno via per non tornare più, cosicché gli applausi sono rivolti a una scena vuota, a noi stessi. Ma c'è anche il suono trascendente del piano di Erik Satie (Trois Gnosiennes) che chiude sulla bocca spalancata di chi si suicida lentamente, semplicemente vivendo la vita di tutti i giorni, tra buste di arance rovesciate e grida mute.

Rosamaria Aquino 21/06/2015

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