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“Amore che vieni amore che vai”: suono che resta e De André che si smarrisce alla Casa del Jazz

Lug 25

Cantare Fabrizio De André è sempre un rischio: è come autoproclamarsi predicatori di un culto consolidato, come salire a celebrare sull’ altare di una chiesa che non è la propria, come appendere le proprie tesi sopra altre 95 già scritte, e bene. Cristina Donà è anche una donna, e una voce femminile, seppur particolare e bassa come quella in questione, forse rende ancora più complesso ricreare quel tappeto sonoro, quella semplicità grave, quella poetica della pesante essenza così marcata nelle sue corde maschili.
In aggiunta a ciò, nella serata di sabato 23 luglio alla Casa del Jazz, la Donà ha scelto di esplorare e interpretare brani sulle donne e sull’amore, tematica tanto banale quanto complessa da riproporre in nuove chiavi. Per questo ha scelto una band dona2dal calibro internazionale per direzionare verso il jazz questo sentiero scelto nel labirintico percorso del cantautore di Genova: Rita Marcotulli al pianoforte, Enzo Pietropaoli eccezionalmente al basso, Fabrizio Bosso, la tromba più famosa d’Italia, Javier Girotto ai sax, Saverio Lanza alla chitarra elettrica e Cristiano Calcagnile alla batteria e alle percussioni.
L’idea musicale e di arrangiamento è geniale, innovativa e dalle potenzialità incredibili. In questo, le aspettative della folla inaspettatamente accorsa non sono state smentite: la chiave di lettura sonora data alle canzoni scelte nella maggior parte dei casi dona loro nuova luce e non riduce il lavoro a una mera riproduzione. “Amore che vieni amore che vai” in apertura, il gioco a inseguire tra tromba e sax ne “La canzone di Marinella”, l’intimismo di “Verranno a chiederti del nostro amore”, i ritmi nati da percussioni assortite e la tromba dal balcone di “Franziska” sono brillanti e riuscite. Gli assoli dei vari strumenti, nella loro perfezione estemporanea, sono sempre incastonati opportunamente in momenti corali di sostegno alla voce e alle parole.
Tuttavia, il concerto non riesce a convincere del tutto. Gli strumentisti sono incredibilmente abili e espressivamente densi, ma c’è qualcosa che, ogni tanto, stride sul palcoscenico.
Non è Cristina Donà in quanto voce del gruppo: il suo timbro è intenso, preciso, potente. È la sua reinterpretazione di alcuni pezzi in modo caciarone o troppo estatico, è il fatto che per due volte dimentica i testi o non sale di tonalità, sono i discorsi programmatici e retorici che inserisce ogni tanto, sono le moine a volte un po' troppo pop e i giochi di voce a volte un po' troppo rock, sono il suo scherzare e voler coinvolgere il pubblico in un modo che, a volte, non è corrisposto.
dona1Il momento più riuscito è quello solo strumentale: un progetto dedicato al cantautore esclusivamente su corde, tasti e percussioni sarebbe stato incredibilmente toccante. Dopo quel “Il pescatore” da pelle d’oca, eseguito al solo basso aiutato dal sintetizzatore, davvero sembrerebbe una strada da essere seguita e battuta. Questi musicisti ne hanno le capacità e le sensibilità necessarie.
Perché non siamo venuti per fare il coretto di “La ballata dell’amor perduto”, o per le imitazioni con la bocca della tromba di Bosso, o per applaudire fortissimo quando ci viene richiesto. Siamo venuti a una Messa, che non per forza deve essere malinconica, statica e lobotomizzata, ma neanche di quell’allegrezza tirata, di quella passione ostentata o catarsi enfatizzata.
Non si riesce a perdersi e a prendere sempre sul serio il progetto – soprattutto dopo una riproposizione di “Bocca di rosa” in stile favola della buonanotte per bambini di dieci anni, con tanto di vocine e gesti teatrali. La Donà è simpatica e vuole risultarlo, ma non si può scherzare troppo con il fuoco, nuotare troppo lontano dalla riva.
Va bene la libertà interpretativa, ma va ancora meglio saperla dosare con cura e rispetto.

Giulia Zanichelli 25/07/2016

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