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Un jazz che non vuole dimenticare: Avishai Cohen Quartet rielabora il dolore su spartito

Lug 12

Nel meraviglioso giardino de La Casa del Jazz, sopra un palcoscenico scuro in mezzo all’erba verde, si alternano in diverse serate musicisti di fama internazionale. È la rassegna estiva SUMMERTIME, che anche nel 2016 riesce a prendere vita e a farci scoprire nuovi angoli di jazz o a incastrarci di nuovo in quelli vecchi. Avishai Cohen è uno degli illustri ospiti di queste notti: israeliano, ha una folta e lunga barba e baffi, abiti neri e tanti anelli nelle dita che si posano sui pistoni della tromba.
Il jazz che propone è distensivo, rilassato, quasi lirico. Non è un maratoneta della tromba, non è un fanatico della resistenza del soffio o dell’infinita modulazione virtuosistica. È un musicista che compone in primis per esprimere le proprie sofferenze, e dunque non può esserci rigore assoluto, rigida linearità o costanza sonora.
Accompagnato dalle incursioni del pianista Yonathan Avishai, dalla costanza del contrabbasso di Barak Mori e dall’inarrestabile batteria di Nasheet Waits (il cui assolo è senza dubbio una delle parti più coinvolgenti e sorprendenti dello show), avishaicohen2questo quartetto originario di Tel Aviv sta girando il mondo per proporre l’ultimo lavoro di studio, “Into the silence”. Il disco, debutto come leader del trombettista, è dedicato agli ultimi giorni di vita di suo padre: esso respira e nuota in un’aurea di sospensione temporale, rendendosi eternamente lieve, a qualche metro dal suolo.
Dopo un pezzo di “presentazione” ci viene spiegato e dispiegato il loro prodotto ultimo. Diviso in cinque parti, anche l’orecchio meno esperto è facilitato a seguire un discorso che si articola in diversi titoli, immagini di differenti riflessioni e desideri esecutivi: “Life and Death”, “Dream like a Child”, “Into the Silence”, “Quiescence” e “Behind the Broken Glass”.
Ciò che possiamo sentire è un suono appassionato, interiore, non forzatamente complicato dal punto di vista compositivo. E, proprio per questa sua semplicità complessa, al passo con la modernità, tanto bisognosa di discrezione quanto ricca di pulsioni: le sonorità sono quasi sempre trattenute con anche l’aiuto della sordina, le esplosioni di forza sono rare e tese. Il gioco ritmico e melodico si combina spesso sul dialogo tra pianoforte e tromba, tra corali improvvisi crescendo e altrettanto rapidi diminuendo, tra ritenuti e accelerando. Cohen riesce a illuminare i propri compagni, concedendogli ampi ritagli solistici e lasciando spesso il centro della scena – anche fisicamente- in loro favore, dando prova di grande rispetto e d’inaspettata umiltà.
È un live che sorprende, perché dentro alla sua invocazione al silenzio c’è molto di più, molto altro e molto oltre: c’è lo specchio dell’emotività frammentaria di un artista che, in riuscita collaborazione con i propri colleghi, riesce a mettere su pentagramma quel mix di sentimenti confusi, tristezze interiori e improvvisi risvegli emotivi che prima o poi verranno vissuti da tutti nella vita, e che tanto la marchieranno.

Giulia Zanichelli 12/07/2016

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