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#Rubik - I colombiani fatsO approdano in Europa con l’album “On tape”

Apr 06

Partire è un po’ morire, diceva quello. Massima che senza dubbio i marinai di Cristoforo Colombo avevano ben in mente quella mattina del 3 agosto 1492 quando, non troppo volentieri, furono trascinati per mare, ignari di approdare in quelle che sarebbero state le future terre del Sud America. Mentre a questo giovane gruppo di Bogotà (Colombia) della morte, del partire importa ben poco, anzi, proprio nulla, dato che è pronto a levare le ancore alla volta delle temutissime Colonne d’Ercole, viaggiando su navi cariche di una musica che di latino ha ben poco. Sì, perché ai fatsO, sestetto assemblatosi intorno al 2013, non interessa più il solito genere d’esportazione fatto di salse, merengue e svolazzanti gonnelline hawaiane. Loro, come tutti quanti, vogliono fare jazz.
Guidati dalla graffiante voce roca di Daniel Restrepo (nonché group leader e contrabbassista d’occasione), mettono insieme un ensemble di fiati, tra cui le diverse voci dei saxofoni di Daniel Linero, Pablo Beltrán, Daniel Bahamón e il clarinetto di Julio Panadero, provocato dalle secche percussioni di Cesar Morales.
Il loro ultimo album, “On Tape”, è infatti il primo ad essere esportato nella nostra cara Europa e già, da qui, possiamo avvistare una prua che ondeggia a ritmo di blues e di rock. Dichiarando di ispirarsi tanto a Martin Robot, quanto ai maleducati Radiohead, sperimentano un genere che, infatti, sembrerebbe provenire più dai sobborghi newyorkesi che da qualche sperduto barrio ispanico. Dieci tracce, nove delle quali in inglese, portano oltremare una svogliata malinconia e un’accattivante provocazione. Hello, prima canzone del disco, sembra un vero e proprio saluto tipicamente sudamericano: distratto e trascinato in un tempo da blues, sfoggia però tutta la forza di una batteria che mena chiassosi piatti rockeggianti mentre i fiati ci stordiscono con lunghi controcanti usciti da chissà quale scantinato degli anni ’30. E se tanto in Getting Bad, quanto in Crying Out o Brain Candy il leitmotiv rimane quello di un soul impuramente sporcato da un jazz quasi promiscuo, è con Pimp che le percussioni di Morales impazzano nel risvegliare l’imprevedibilità dei fiati inoltrandosi nelle fitte trame di un NuJazz più moderno. Qui, la seducente voce di Restrepo si lascia andare ad un uso più strumentale e, pur mantenendo una timbrica propriamente nera, ci strappa dallo scenario statunitense post bellico, dove, finora, aveva condotto.
Ma la vera sorpresa, l’epifania dell’intero album si manifesta con Oye Pelao, l’extra track in lingua spagnola che permette al gruppo di sbottonarsi, calando le maschere di una musicalità che, seppur notevole, ridonda eccessivamente di yankee. Lo sporco della polvere rossa, l’odore forte del rhum, il fumo di sigaro che si propaga nel soffocante caldo equatoriale: è questo che emulano gli acuti dei clarini uniti all’inebriante lamento di Restrepo nella nona traccia di "On Tape". In questo pezzo il gruppo colombiano fa approdare ai nostri lidi qualcosa di tanto vero, quanto nuovo e le sonorità, mischiando echi conosciuti a panorami esotici, hanno tutto il potenziale per conferire al jazz un’anima imprevedibilmente infuocata.
Curiosi e speranzosi, aspettiamo di conoscerli personalmente nelle due tappe italiane (Roma e Genova), previste a maggio nel loro tour europeo, partito il 30 aprile scorso. Che Colombo sia con loro! Noi siamo pronti e di rhum e sigari abbiamo una gran voglia.

Per Rubik, Elena Pelloni 06/04/2016

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