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#Rubik: Bob Moses, house per palati raffinati e non

Mar 13

I Bob Moses sono di fronte a noi, e la prima cosa che viene da pensare è che siano svedesi. Di tanto non ci siamo sbagliate: Tom Howie e Jimmy Vallance sono canadesi, di Vancouver (freddo per freddo).
Ma il loro sound può essere definito proprio come loro, svedese dentro. Elettronica e deep house commistionate, suoni puliti e martellanti, bassi sparati, una chitarra, tastiere sintetizzate e la voce netta senza sbavature di Jimmy.
La cosa più sorprendente di questo duo americano, al loro disco di debutto nel 2015 con “Days Gone By”, non sta tanto nella loro proposta musicale ( Paul Kalkbrenner e Swedish House Mafia possono essere due degli esempi più famosi a loro assimilabili) quanto nel pubblico che sono in grado di coinvolgere e attrarre.
La fascia di età presente è delle più ampie, varie e inaspettate che si siano mai viste allo stesso concerto. Dal quindicenne con gli amici e il cappellino calato in testa alle coppiette trentenni che si tengono per mano, fino ad arrivare a gruppi di –anta che muovono la testa e i fianchi a ritmo di basso. Il suono reiterato, caricato dal testo basico facilmente memorizzabile e dalla ritmica incessantemente pulsata, trascina il pubblico dei Bob Moses in una sorta di trance di gruppo, dove centinaia di piedi battono il tempo all’unisono, dove le teste ondeggiano in un’unica mareggiata umana e le mani si alzano negli stessi punti di picco di tensione musicale.
Questo non ce lo aspettavamo proprio.
Complimenti ai Bob Moses, dunque, che sono riusciti a fare di un sound così tipicamente inquadrato nella fascia giovani appassionati uno strumento accessibile a tutti e da tutti apprezzabile.
D’altronde, se suoneranno al Coachella in aprile un motivo dovrà pur esserci.

Per Rubik: Giulia Zanichelli ed Emanuela Platania (immagine) 12/03/2016

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