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So long, Leonardo

Nov 11

"Things are going to slide, slide in all directions
Won’t be nothing
Nothing you can measure anymore
The blizzard, the blizzard of the world
Has crossed the threshold
And it has overturned
The order of the soul" (Leonard Cohen, "The Future" 1994)

Il magone con un’algida tastiera di computer non si può misurare, eppure sta nel tremolìo con cui batte i tasti chi si trova a dover affrontare una scomparsa di portata enorme (l’ennesima di questo annus horribilis), una scomparsa di quelle per cui sarebbe necessario il silenzio, ma da cui è difficile discernere una lacrima.
Come il pittore al pennello, lo scultore allo scalpello, un songwriter si aggrappa ai suoi strumenti, le parole (potenti) e la voce (suadente). Prima che cantautore, Leonard Cohen è stato poeta autentico, “minore” come si è sempre definito, e romanziere. La canzone l’ha raggiunta dopo, a trent’anni, e ha scritto la storia. Da cantore della malinconia le sue pulsazioni si sono espanse al sesso, alla religione – spesso filo conduttore dei suoi pensieri, dai romanzi alle ultime creazioni – alla politica. Temi incorniciati da una musica sontuosa, elegante, che dalle periferie di Montreal volava verso la sperimentazione più ingegnosa, dall’elettronica al jazz alle composizioni etniche.
Il classico cappello, la mano stretta, strettissima al microfono, e un vestito gessato – magari marrone, per dirla con uno dei suoi allievi più famosi: Leonard Cohen era già icona, aveva già e avrà sempre una sua iconografia, indelebile, gigantesca. Ognuno l’ha fatta sua conservando un verso, un frammento di quella sensibilità irriproducibile, un pezzo di cuore deflagrato. Anima ospite, nomade meditabondo, ha praticato l’essenza della canzone d’arte, che in questi casi e pochi altri somiglia parecchio alla vocazione della letteratura: raccontare una storia per non affrancarsene, per spostarla dal quotidiano a un tempo altro, divino, magico, mitologico. Storie personali che diventano storie dell’uomo.

È necessario, forse, leggere tra le pieghe di una lettera estiva inviata a Marianne Ihlen – musa di “So long, Marianne” e “Bird on wire” incontrata a Hydra negli anni Sessanta – malata terminale di leucemia: “ti seguirò presto”, “ci vediamo lungo la strada”.
Come capitato per Bowie, è necessario leggere tra le righe del suo ultimo lavoro, pubblicato lo scorso 21 ottobre, per aggrapparsi a un dettaglio, una luce sbiadita che dalle crepe di una preghiera-testamento come “You want it darker” possa regalarci ancora un barlume di bellezza in un mondo che ne sta perdendo tanta, troppa.

Ballate, poesie, country e folk. Un’ipnosi, un eterno conflitto interiore, uno spirito infuocato dalla necessità di raccontare storie di vinti e antieroi, “Belli e perdenti”. Note e parole plasmate da un timbro cavernoso e profondo, una voce calda come la fodera sdrucita di un impermeabile blu in una fredda mattina di novembre.
So long, Leonardo.

Daniele Sidonio 11/11/2016

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