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Deepest thanks for the God of Upbeat: la vitale allegria dei Caracas

Gen 22

Una selva ordinata di strumenti, un oud arabo, un bouzouki greco, un darabouka, un tamorra napoletano. E poi ancora chitarre, acustiche ed elettriche, violino, batteria, pad, tastiera. Il Teatro Studio Gianni Borgna è stato, la sera del 20 gennaio, un crocevia di culture musicali, strade pronte a intrecciarsi nell’immaginario viaggio dei Caracas.
Loro, a Caracas, ci sono stati sul serio - Valerio Corzani e Stefano Saletti - alla ricerca di un sogno, quello dell’Upbeat, del “levare”, dell’ascesa. Un sogno ottimistico di riunione musicale, dal mediterraneo al Venezuela, non utopia ma realtà tangibile, una dimostrazione che la musica non risente dei confini ma è capace di prendersi per mano, attraversando gli oceani, scalzando secoli di tradizioni per dare vita a qualcosa di nuovo e allo stesso tempo antico.
Così parte il viaggio, sorprendente per toni, varietà, colori. La musica dei Caracas evoca le città dei barrio loco, il sole delle periferie, i profumi dell’Africa e del mare. Per poi, comunque, sentirsi a casa, nel cuore del sud Italia, grazie anche alla presenza di suoni cari familiari, come il marranzano (lo scacciapensieri) di Nando Cittarella, ospite insieme Sergio Vitale alla tromba.
È un sogno, un’immaginazione vivida, evocata dai video di Roberto Saletti che scorrono dietro gli artisti, ma anche una meravigliosa e vitale collaborazione: oltre ai già citati, sono presenti sul palco Erica Scherl (violino), il giovanissimo ed entusiasta Eugenio Saletti (voce e chitarra), Filippo Schirinnà (batteria). Senza protagonismi, i Caracas vivono per la loro musica, sono impazienti di trasmettere ciò che hanno visto, ciò che hanno imparato nel corso della loro ricerca. E lo fanno con vera gioia, come quando raccontano di aver trovato, mentre giravano per le strade di Caracas, una versione di "E la luna bussò", e la ripropongono, scaldando il pubblico che lentamente si lascia convincere, trascinare. E’ un suono che non crea diffidenza, che non allontana: la band lascia che ognuno segua il proprio ritmo, il proprio tempo, forse perché sa che infine riuscirà a conquistare anche lo spettatore più scettico. E infatti, dopo un concerto durato quasi due ore, ci si ritrova con un velo di nostalgia addosso, quello che nasce quando torni da un viaggio che ha lasciato il segno, anche piccolo.
Allegri e solenni, divertenti e malinconici, i Caracas hanno il potere di ricordare che, a dispetto della storia, della distanza, dei confini, gli essere umani hanno sempre fatto musica, in qualunque momento, con qualunque strumento. Una realtà forse scontata ma che, a pensarci bene, è commovente e piena di speranza.
Perciò, come scrivono nel loro disco omonimo, “deepest thanks for the God of Upbeat”: i più sentiti ringraziamenti al Dio dell’ottimismo.

Giuseppe Cassarà 22/01/16

Foto: Fabiana Manuelli

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