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A partire dal cielo: “Astrautore” di Nico Maraja

Gen 20

“Se aprissimo la porta dei desideri, e ci incontrassimo in un altro altrove, dove stenderci ad ascoltare i suoi pensieri, capiremmo insomma quel che il cuore vuole?”

Due riferimenti temporali, uno all’inizio e uno alla fine, tracciano il percorso narrativo di “Astrautore”, opera seconda di Nico Maraja. Il protagonista si sveglia come da un lungo sonno, si guarda allo specchio e si ritrova nel 2034. Parte da qui una sorta di viaggio onirico a ritroso, che termina con l’ultima canzone, in cui l’io è di nuovo sveglio davanti a uno specchio pieno di pesci, mentre ragiona sul futuro che lo attende.
Il disco sfrutta subito con spunti interessanti l’affascinante etimologia di desiderio. “Le stelle quando cadono hanno paura”: ma quando cadono le stelle? Qui sembra racchiudersi la chiave di apertura dell’immagine (evocata anche dalla copertina del disco). De-sidera: volgersi con affetto verso qualcosa che non si possiede, fissare le stelle. Con-sidera: guardare ciò che attrae e che manca. Nel brano di apertura gli effetti sulla voce e il cantato un po’ frammentato sospendono il tempo e rendono perfettamente l’idea di una veglia interrotta. 

Il ritmo accelera con “Leopardi (luna blu)”, che immediatamente rimanda alle liriche del poeta di Recanati – “Alla luna”, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” – e si sviluppa come una rabbiosa ma accorata ode a un altro astro, la luna, al contempo musa indispensabile e riferimento fallace: “non ti scriverò più niente, tu divina e deludente, ora lasciami dormire, non ho voglia di sognare”.
Le morbide pigiate di “Rita”, frammiste a soffi jazz, spezzano per un attimo il ritmo per descrivere un’altra musa proveniente da mondi lontani, da sogni diversi, “senza età”. Il riflesso di quello specchio che il protagonista si trova davanti mostra lati nascosti della propria essenza – “io sono segreto a me stesso” – articolata su dettagli e sulla spinta verso un viso su cui affondare e in cui confondersi.
La soffice melodia di “Nel mio pensiero morbido” si rinfresca con “Buco in testa”, avvolgente e convincente swing che racconta di come quello specchio siamo noi stessi, viventi in un mondo surreale, pieno di colori, immagini fantasiose e pesci come il latterino o il policanto. In coda al pezzo di metà disco il tempo rallenta di nuovo per continuare sul momento riflessivo di “Tu dall’universo”, dove gli archi e i fiati vengono sostituiti da un sottofondo più distorto. Nella parte finale si riprende il tema iniziale delle stelle per piombare, con barlumi di veglia, nell’analisi di una realtà imperfetta ma perfettibile (“La notte, poi”): “Io e voi, se ci pensi attentamente, quanti siamo? Eppure in fondo non facciamo proprio niente per cambiare questo mondo”. Le domande sul futuro fanno passare il sonno, ma per capire se un giorno sarà migliore forse bisogna solo aspettare e convivere con la propria fragilità.
Forse in alcuni passaggi Maraja si perde un po’ in sentieri sperimentali che allontanano dal focus, ma che personalizzano tuttavia un progetto che parte dalla tradizione d’autore tout court per sviare in episodi di altro genere, dal jazz allo swing. Il cantato mai lineare, a volte effettato a volte fluido, a tratti anche inerpicato in spazi difficili, si sposa bene con rime non superficiali e rende il senso di una fantasiosa riflessione sull’amore e la realtà a partire dal cielo. “Astrautore” disegna un Astolfo che è un po’ più giocoliere stralunato che impulsivo cavaliere.

Daniele Sidonio 20/01/2017

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