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“Vit! Vit! Storia di una pendolare”: la lotta impari tra uomo e tempo raccontata da Francesca Danese

È un dettagliato quadro, realistico e purtroppo agghiacciante, della nostra realtà contemporanea il monologo di Francesca Danese, “Vit! Vit! Storia di una pendolare”. L’attrice è sola al centro del palco, ma è impossibile non pensare che lì, illuminati dal riflettore della piccola sala del teatro Studio Uno di Roma (in scena dal 2 al 5 marzo), ci siamo anche noi.
Quante ore durante la giornata riusciamo veramente a dedicare a noi e a quello che ci piace? Quante volte ci sentiamo sopraffatti dagli impegni? Schiacciati dal tempo come se fosse un macigno pesante? Interrogativi questi che, almeno una volta al giorno, appaiono nella mente di qualunque essere umano e a cui l’attrice cerca di dare una forma con il suo spettacolo. La storia alla base del monologo è semplice, una donna sulla trentina, che ogni giorno viaggia per andare da casa a lavoro, si ritrova a riflettere sulla sua condizione di pendolare. Eppure è proprio in questa semplicità che si nasconde la forza del testo teatrale e il suo potere di scuotere l’animo dello spettatore, lasciandolo lì, seduto al buio, a Vitvit02riflettere sulla sua triste esistenza.
Il tempo per la Danese ha una forza divoratrice, inghiotte e ingloba tutto ciò che ha davanti. Toglie le energie all’uomo, illudendolo ogni volta con frasi a mo’ di slogan “Il tempo è denaro”, “Chi ha tempo non aspetti tempo”. La società contemporanea non accetta scuse, non si interessa all’individuo. Il singolo acquisisce valore solo nella collettività al pari di un numero, perciò che importa se una donna vuole provare ad avere un figlio, costruire una famiglia e cercare quindi di non passare tutta la propria giornata su un treno, per arrivare poi a casa ogni sera talmente tardi e talmente stanca da non riuscire neppure a prendersi cura di se stessa.
Il tema della pendolarità, che unisce molti italiani, viene usato dall’attrice per parlare ad ampio respiro della vita sempre più precaria nel XXI secolo. I continui cambiamenti di umore Vitvit03che la donna ha, alla mattina super concentrata, quasi forzata nell’essere felice, poi triste, poi riflessiva, poi ancora malinconica e infine totalmente fuori controllo, sono lo specchio di un disagio umano collettivo, di un malessere interiore che forse, facendo molta attenzione, potremmo scorgere negli occhi di chi è seduto nel nostro stesso vagone. Ma tutti andiamo di corsa, tutti siamo sempre incastrati nella routine della quotidianità e proprio come il coniglio bianco del romanzo “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll ripetiamo in mente e ad alta voce “È tardi! È tardi!”, ignorando così chi ci circonda e ciò che di buono e piacevole può offrire la vita. Un senso di estraniamento accentuato oggi senza dubbio anche dalle nuove tecnologie, che ci spingono ad essere solitari, a chiuderci in noi stessi, a credere che lo smartphone sia il nostro migliore amico, ad alienarci talmente tanto da perdere il contatto con la realtà e con il nostro io.
La scenografia intorno alla Danese è essenziale, asciutta, perfetta per mettere in risalto le parole, i gesti, ma soprattutto le espressioni dell’attrice, che cambiano repentinamente inseguendo lo scorrere dei pensieri e degli umori. Senza bisogno di troppe spiegazione allo spettatore, la Danese gioca con il tempo tiranno a suo piacimento, non nella vita reale, dove è impossibile, ma nella sfera dei sogni. Nella mente siamo noi i padroni di ciò che accade ed ecco allora che per trovare sicurezza e conforto la protagonista non può fare altro che rifugiarsi nella confortante voce meridionale della nonna. I ricordi però non sempre sono piacevoli, ma proprio quando fanno soffrire sono ancora più funzionali alla costruzione di una psiche, quella della donna, ma anche dell’intero mondo, sempre più vicina alla pazzia.
Francesca vuole solo “dormire, morire”, ricorrendo all’Amleto di Shakespeare, lei che da brava laureata in Lettere ha dovuto accettare un lavoro come segretaria. E anche lì, quando in preda al delirio prende forse una decisione folle e avventata, non possiamo non guardarla fissa negli occhi, grandi e lucidi, e pensare inevitabilmente, mentre la luce si spegne, che il suo grido d’aiuto e di disperazione è il nostro e che domani andare a lavoro e immergersi nella routine di impegni e doveri avrà un sapore diverso, amaro. Attraverso la sua tragica ironia “Vit! Vit! Storia di una pendolare” ci spiazza, perché mette sul palco la quotidiana lotta impari tra tempo e umanità, infrangendo le nostre misere e artefatte certezze.

Eleonora D’Ippolito 04/03/2017

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