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“Due”: il cocktail di vite di Jim Cartwright al Teatro Palladium

Il Teatro Palladium di Roma si è trasformato, per le due sere del 10 e dell’11 marzo, in un piccolo e dinamico pub inglese di provincia, luogo in cui si svolge “Two”, originariamente scritto nel 1989 da Jim Cartwright – drammaturgo di fama internazionale – e qui proposto nella versione italiana di Serena Zampolli con la regia di Massimo Mesciulam. Tra battute scambiate con i clienti e una foresta di bottiglie e bicchieri, due coniugi mandano faticosamente avanti un pub di cui anni prima presero la gestione, costruendo pezzo per pezzo la loro relazione mentre, di pari passo, "costruivano" e accudivano amorevolmente il locale. I due, però, sono incapaci di relazionarsi l’un l’altra senza aggredirsi verbalmente, disprezzarsi e litigare: il loro rapporto, ingabbiato in un reciproco e continuo recriminarsi di errori e mancanze, sembra essere avvelenato dal rancore, in un vero e proprio ring dialogico composto da “round degli Two1scassacazzi”. Il retro del bancone diventa il punto focale da cui i due coniugi possono osservare una sfilata di clienti che entrano ed escono dal pub, ognuno con il proprio particolare bagaglio di emozioni e sentimenti: alla personale e intima vicenda dei due proprietari, infatti, si intrecciano sette diverse storie di vita, ricche di densità tragica ma, allo stesso tempo, rese grottescamente comiche dai frizzanti dialoghi, spesso caratterizzati da un pungente cinismo e umorismo nero.
La forza di questa originale messa in scena risiede nel suo svilupparsi in un dinamico via vai di esistenze e rapporti umani i cui difetti vengono portati all’estremo della rappresentazione, seppur «disinnescando i tratti caricaturali suggeriti da Cartwright», come afferma il regista. Sono sorprendentemente gli stessi proprietari del pub a cambiare continuamente pelle, superando liberamente la rigida posizione imposta dal bancone per assumere il ruolo del cliente di turno: si cambiano i vestiti sul palco in modo ben visibile al pubblico e indossano in successione i panni di ben quattordici personaggi diversi. Alle scene “a due”, di coppia e dialogo con l’altro – in cui si susseguono esasperate e usurate relazioni amorose – si intrecciano monologhi “a uno”, diretti a se stessi: una coppia in cui lui è un maniacale e nevrotico cascamorto che flirta addirittura con le donne del pubblico, ma per paura di rimanere solo decide di sposare la sua fidanzata, che accetta sebbene sia consapevole di essere solamente usata dal compagno; due che si amano solo “perché sono ciccioni”, alienati davanti alla TV nell’apatica attesa della pubblicità e quando finisce il programma... “che si fa?”; un toccante e poetico episodio di un cieco che descrive a se stesso la felicità che prova nel toccare un oggetto appartenente alla defunta moglie, la ricorda e gli appare dentro di sé, come un “abbraccio che consola” o, all’estremo opposto, il feroce monologo di una vecchia lavoratrice frustrata che inveisce contro il marito handicappato. Tutti i disparati personaggi sono stati parte della coppia dei coniugi, rappresentando un Two2frammento di riflesso delle loro emozioni e dei loro sentimenti: rabbia, malinconia, solitudine, rancore, frustrazione. Questa vasta vetrina di prototipi relazionali è resa ancora più appassionante dalla brillante e schizoide interpretazione dei due attori in scena, Angela Ciaburri e Davide Mancini, abilissimi nell’adottare ciascuno ognuna di queste sette distinte personalità anche molto differenti tra loro.
Quando ormai a fine serata si è giunti all’ultimo giro di drink, spinti ad essere più se stessi dall’ebbrezza dell’alcool, i due coniugi gettano le armi, abbattono il muro di incomunicabilità che li divideva e si vengono incontro. È l’inaspettata apparizione di un bambino smarrito a fare da deus ex machina tra i due, svelando quel proverbiale “elefante nella stanza” che li paralizzava nel dolore – la tragica morte del piccolo figlio anni prima – problema che ingombrava l’anima e di cui però volevano ignorare l’esistenza per non soffrire ulteriormente. In nome della propria salvezza, i due decidono di sciogliere il gelo che era calato sul loro rapporto, riconoscere ognuno la propria parte di colpe, elaborare insieme il lutto e ritornare ad essere Due. Il litigio non era altro che il sintomo della fatale necessità di cercarsi, una maschera che nascondeva in realtà una controversa forma di dimostrare attaccamento perché faceva sentire all’altro che nonostante tutto si era lì, presenti e vicini, pronti a sostenere il peso della solitudine. Il pub è quel meraviglioso luogo in cui, tra madidi tavolini e scomposte sedie, non solo si annegano i ‘solistici’ trambusti interiori ma ci si ritrova anche per un ‘duetto’ nella necessità di condividerli intimamente, il tutto “shakerato in un cocktail”. In fin dei conti, è la logica del “Due” a vincere su quella dell’Uno.

Flavia Mainieri 14/03/17

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