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“Tre passi di donna”, l’universo femminile verso una nuova coscienza di sé

Ironiche, brillanti, sensibili, vittime di loro stesse e degli altri, ma pur sempre piene di speranze: le protagoniste delle storie raccontate al Teatro Furio Camillo - in occasione della Rassegna “Tre passi di donna” - hanno personalità, sfaccettature e vissuti diversi, ma rappresentano l’universo femminile, ne offrono uno spaccato e ne denunciano gli stereotipi. La rassegna, giunta al quinto anno consecutivo, ha portato in scena dal 2 al 5 marzo una serie di interpreti fondendo le loro varie espressioni artistiche.
Dal registro drammatico fino al teatro di ricerca corporeo le protagoniste affrontano temi diversi come la perdita dell’identità e il percorso verso la riappropriazione di un modo di essere più autentico.trepassidonna2
Come in un calderone che cuoce e mescola gli ingredienti per poi destinarli all’assaggio e al godimento, la prima serata della rassegna ha unito tante artiste che hanno rigorosamente declinato al femminile le loro performance. Uno spettacolo di cabaret in cui la rappresentazione della donna nella società costituiva il filo conduttore. Sul palco si sono alternate attrici, cantanti, acrobate e ballerine con le loro storie e il loro talento e ancora prima nel foyer del teatro il pubblico era stato accolto sulle note di una fisarmonica a suon di stornelli e di ballate popolari sull’amore.
La rassegna si è aperta all’insegna della musica e dell’ironia in un contesto metateatrale che ha fatto di un fantomatico show di varietà lo spettacolo vero e proprio. La finta presentatrice ha introdotto, tra le altre, una ballerina di burlesque e un trio comico. I momenti cabarettistici sono stati intervallati da monologhi ed esibizioni volte a fondere la danza con l’arte circense. Forte e simbolico il contrasto tra le donne sospese nel vuoto e l’attrice in accappatoio, con i piedi ben piantati per terra e lontano dalle illusioni giovanili. In un mondo di precari e di individui spinti ad accontentarsi anche delle briciole le favole non possono più condurre verso la felicità: le donne hanno il diritto di perseguire la realizzazione personale liberandosi dalla schiavitù della bellezza a tutti i costi e raggiungendo una nuova coscienza di sé e dei loro desideri.
trepassidonna3Il puro e semplice brivido dell’incertezza eccita e incita sempre a tentare ancora. E Martina (Marina Romondia), protagonista di “Rien ne va plus”, secondo spettacolo della Rassegna andato in scena il 3 marzo per la regia di Nicoletta Robello Bracciforti, è vittima fino al midollo di questo meccanismo, o meglio, di questa droga, di questa dipendenza. La ragazza inizia a giocare d’azzardo a soli 17 anni, poi la vediamo continuare a 21 e infine esserne ancora assorbita a 24.
Sulla scena, una poltrona, una sedia e uno sgabello con le ruote. I personaggi, Martina e la nonna, si muovono in uno spazio che a seconda dei momenti della narrazione si trasforma; ora è la camera da letto, ora il salotto di casa, ora è il casinò ora è la sala slot di un piccolo bar di provincia. Desiderio, eccitazione nel puntare sempre di più sono le sensazioni menzognere che fanno da sfondo a questa storia tragica. La giovane vive con la nonna (personaggio interpretato magnificamente dalla stessa Romondia) e ha perso tutta la pensione di quest’ultima al gioco riducendola sul lastrico.
“La slot ti fa perdere la testa”, ammette Martina nel finale. La vitalità ingannevole data dalle fortuite vincite viene ben presto spezzata da uno sparo. “Per giocare occorre una pistola”, ci ricorda l’attrice. Il gioco è una maledizione, è qualcosa di marcio. L’intensità delle emozioni finisce per abbracciare il più totale sfinimento e, nella sua profonda disperazione, Martina sembra sussurrarci: quel che è stato è stato, ormai non c’è più nulla da fare.

Il 4 marzo il palco del Teatro Furio Camillo si è fatto gelido deserto siberiano. Con “White Siberian” la coreografa Valentina Versino si è proposta di indagare “sulla condizione ditrepassidonna4 desertificazione intellettuale che da anni avverte nel mondo della danza” proponendo uno spettacolo che ripercorre per suggestioni e racconti infantili la storia italiana recente, dalla Loggia P2 all'assassinio Ambrosoli, dalle stragi di Falcone e Borsellino ai fatti incresciosi della scuola Diaz.
Michela Mucci con la compagnia di danza contemporanea Bricolage Dance Movement (Ilaria Amato, Sara Bertoglio, Giulia Botta, Maria Caniglia, Emanuele Grazini, Elena Paglialunga, Giulia Pazzaglia, Roberta Storelli) danno vita a una performance in cui danza e teatro si alternano e si fondono per essere esplorati nelle loro diverse possibilità espressive. La tensione del corpo corrisponde a un'idea di ricerca che sposta il baricentro dell'opera verso fini etici più che estetizzanti, così che la profondità del movimento si carichi di significati drammatici. Tra influenze post-modern e brevi incursioni nel Contact, movimenti ampi e capriole, i danzatori abitano una coreografia accurata e sfruttano il contatto frequente con il pavimento per ricaricare l'energia dispersa, che altera il loro corpo sotto i nostri occhi. Li vediamo sempre più sudati, con il respiro più affannato e i vestiti più scomposti.
La musica è assente in alcuni momenti (il rumore del corpo che cade e si rialza dal pavimento è di per sé un suono), ritorna prepotentemente in altri, avvicinando l'elettronica a Giorgio Gaber. Il ritmo aumenta in climax ascendente fino al punto di rottura che fa implodere l'energia. La componente ludico-regressiva scivola verso il dramma, i movimenti rallentano progressivamente fino allo sfinimento, i danzatori non hanno più il nome proprio che avevano dichiarato, si abbandonano al tutto, si spogliano degli indumenti colorati e si lasciano predominare dal bianco totalizzante. I corpi vengono depurati da cariche erotiche e giocose, perdendo la specificità individuale per diventare componenti di un unico organismo da laboratorio, mortificato, legato, piegato, definitivamente caduto.

trepassidonna5Domenica 5 marzo, “Gaia” conclude “Tre passi di donna”. Un drappo rosso scende sul palco. Martina Giuliani si arrampica, scivola, si aggrappa. Il suo spettacolo debutta per la prima volta alla Rassegna Internazionale di Circoteatro nel novembre 2016 ed è in continuo divenire: crescerà ancora. Il nome scelto non sembra casuale e rimanda evidentemente alla dea della fertilità e della natura, identificata dai greci con Gaia, la Terra stessa; i latini, invece, attribuiscono a gaius il significato di “umore allegro, vivace”. Il richiamo alla classicità è evidente: la protagonista femminile incarna perfettamente il senso di entrambe le accezioni. Nel monologo si (con)fondono circo, teatro, parole e musica. Un urlo disperato apre la scena. La donna atterra sul palcoscenico di legno, leggera e pesante insieme, entrando in punta di piedi all’interno di un cerchio pericoloso composto da tredici pentole. “Mi piacciono le padelle, il pentolame”, confessa al pubblico, instaurando sin dall’inizio un dialogo dal clima familiare con lo spettatore. Parla del più e del meno mentre appende una per una le padelle a dei ganci attaccati a fili rossi, a sinistra del palco. Inizia a raccontare: adora le crepes; ma lui preferisce il salato. “Ci compensiamo”, spiega. Lui che ha scelto il vestito nero che lei indossa, lui che la cerca, la controlla, la protegge e la copre di messaggi e di divieti. Lei non lavora più, non esce più, non vede più nessuno. Sul palco c’è lo scheletro di una donna fragile, diventata l’ombra di se stessa, chiusa nella sua solitudine, cieca, incapace di capire la triste realtà dei fatti, negando l’evidenza fino alla morte. Il suono delle padelle che sbattono è forte e fastidioso ma le sue orecchie non lo sentono: è caduta dalle scale, non ricorda. Intanto risuonano prepotenti le note di “Dio, come ti amo”. Da una casseruola tira fuori un completo bianco, lo indossa: “sono Gaia, sono morta oggi nella mia cucina all’ora di pranzo. Mi vedete?”.
Nella triste realtà della violenza quotidiana che affligge e uccide ogni giorno, la voce di Gaia è forte e chiara. Scomoda ma liberatoria. Per tutta la durata della rappresentazione si assiste a una metamorfosi del personaggio, a una presa di coscienza sempre più consapevole e interiorizzata. La donna torna a volteggiare lieve su quel drappo rosso, nonostante sia ormai troppo tardi.
Quello di Martina Giuliani è uno spettacolo paradigmatico. Coraggioso, naturale, semplice e incisivo al quale unirsi e prendere parte con convinzione.

Silvia Natella, Penelope Crostelli, Chiara Bravo, Silvia Lamia 08/03/2017

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