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"Torino Fringe Festival": il teatro indipendente sugli scudi

TORINO – Torino Caput Mundi. O quanto meno dell'Italia. Se Milano è città europea, Torino le va subito a ruota. Qui accadono le cose, pur nelle contraddizioni, si ha la netta sensazione che questa metropoli, una volta considerata aristocratica e adesso cosmopolita, sia in cammino, in movimento. A Torino non ci si annoia. Negli ultimi anni infatti, su questa sponda del Po, sono, non a caso, approdati il Salone del Libro come i Masters di Tennis o ultimamente l'Eurovision. L'arabo che prende piede, la Francia così vicina, la maestosità delle montagne sullo sfondo di questa cartolina, Torino incastrata tra il mare ligure e le Alpi, la Torino solida per natura, per dna basti pensare ai suoi due simboli per eccellenza: il toro, che dà il nome all'unica squadra di calcio tifata in zona, e la Mole. Ma è grazie al “Fringe Festival”, alla sua decima edizione, che ci siamo spinti lungo bisettrici laterali, esplorando quartieri popolari fuori dalle rotte classiche turistiche; e così abbiamo visitato (tra le dieci location della rassegna) Casa Fools che da fuori sembra un negozio e invece dentro si apre in un'accogliente sala, ed ecco lo Spazio Kairos ex fabbrica di colla poi divenuta ditta di terra rossa per i campi da tennis sbriciolando mattoni, poi scuola circerse adesso teatro con la forma di un fienile, o ancora il Circolo di via Baltea quasi una serra, e infine lo Spazio Ferramenta, luogo di culto comunista, vicino al museo Mao, tutto votato al sovietico, al cimelio russo (non il momento migliore per la nostalgia socialista), con la sua sala sotterranea fresca che sembra di scendere nelle segrete di un castello o nella sala torture. Una trentina gli spettacoli off proposti, sei repliche ognuno, grande carica, grande energia per tre settimane di freschezza e colori, di fermento, di ribollire, di incontri e collaborazioni, di scambi e incroci, di conoscenze e vicinanze artistiche e umane. Il Torino Fringe (la direzione artistica è affidata a Cecilia Bozzolini, Pierpaolo Congiu, Michele Guaraldo, L'origine dell'occhio.pngLia Tomatis) vale sempre una visita per l'accuratezza delle scelte, per la dedizione, per lo spirito che scorre sottopelle come filo sotterraneo riempiendo le atmosfere di ogni spazio dedicato al palco e ai suoi derivati.

Il nostro viaggio è cominciato con “L'origine dell'occhio” del giovane Collettivo Spinaci dell'acqua (nato all'interno del Progetto Cantiere del Festival Incanti diretto da Alberto Jona)che hanno messo in campo la loro ingenuità artistica ma anche idee e voglia, visione, spirito, immaginazione, lavoro e una ricerca invidiabile. Due tavoli laterali, quasi tecnigrafi da geometri, e nel mezzo un telo per le proiezioni, un impianto tanto semplice quanto artificioso che aveva sentori di laboratorio come di artigianalità, di esperimenti scientifici come di manualità tecnica. Se il musicista stava in mezzo ai suoi aggeggi meccanici, oggetti strani, insoliti e inusuali strumenti musicali che producevano inquietanti suoni di caverna, di abisso, di sirene d'Ulisse, di canto delle balene, dall'altra parte la performer muoveva i suoi piccoli arnesi mentre piccole telecamere ne riproiettavano le fattezze amplificate sullo schermo creando una bolla cinematografica dove perdersi. Non solo oggetti miniaturizzati ripresi (qui ci sono tornate in mente le esecuzioni di David Espinosa, specialmente “Mi gran obra”) ma anche libri pop-up (e in questo caso ci sono balzati agli occhi i Sacchi di Sabbia con “Un fossile di cartone animato”) le cui pagine, una volta voltate, escono prepotenti come montagne, prendono forme, aumentano il loro volume, diventano tridimensionali. Una poetica che scivola nell'infantilismo, con delicatezza, una rotta che tende in maniera ostinata e contraria allo stesso tempo verso le paure ancestrali dell'Uomo, ovvero da dove veniamo e dove stiamo andando ma soprattutto chi siamo. Il loro (in scena Martina Mirante e Costantino Orlando) è un racconto sull'origine della vita sul pianeta Terra. Sembrano amanuensi piegati sui propri tomi di studio alla ricerca del Sacro Graal, curvi impegnati tra i loro alambicchi e pozioni e intingoli e arcani. Ed è interessante vedere il prodotto del loro fervente lavoro (e lavorio) come è altrettanto coinvolgente esaminare le postazioni aggrovigliate e arruffate, captando gli autotune e le eco, i riverberi, le mosse tra piccoli segmenti, tra microattrezzi che si trasformano in maniera alchemica in cinema casalingo. L'immagine iconica conclusiva con l'attrice abbracciata al lenzuolo diventa in un attimo l'affresco ambientalista di una ragazza abbarbicata alla coda di un cetaceo: questi ragazzi hanno tenacia, tenerezza e grazia: “Non sarà il canto delle sirene, nel girone terrestre ad insegnarci quale ritorno attraverso le tempeste, quando la bussola s'incanta, quando si pianta il motore, non sarà il canto delle Clown-last-show.pngsirene ad addormentarci il cuore”, De Gregori rules.

Climax completamente opposto è quello invece che porta in scena, e che riesce ad alimentare Willy nel suo “Clown Last Show”. Come bravi soldatini compiliamo un foglio anonimo con i nostri ultimi desideri prima di lasciare questo mondo e li infiliamo in una boccia da pesci rossi: è chiaro di cosa parlerà lo spettacolo ed è chiaro come andrà a finire. Ci si presenta subito un clown aggressivo, alla Leo Bassi ma senza quella carica dirompente e dissacrante. I vuoti sono corposi, i silenzi ampi e consistenti ma con una canzone dopo l'altra si cerca-tenta-crede di ovviare alla mancanza di senso, di testo, di drammaturgia. Entra una bara in scena e il prevedibile diventa reale. Aumentano le attese ed è snervante questa riproposizione della Famiglia Addams, il macabro che sfocia nell'ironia caustica, nel rapporto tra il capocomico e la sua aiutante: le gag sono consunte e consumate, la musica è debordante che sembra di essere in un piano bar e viene usata esclusivamente come riempitivo, la sostanza è minima se non infinitesimale, il tedio ci assale in questo brodo che viene continuamente allungato di superficialità, l'entusiasmo è ai minimi storici e neanche il continuo ricorso al pubblico, portato in scena, riesce a rivitalizzare il boccheggiante, ansimante, agonizzante, claudicante, stanco show: “Io sono un clown e faccio collezione di attimi”, sosteneva Heinrich Böll. Qui sono mancati proprio gli attimi.

Stuzzica e affascina l'impianto creato da Davide Carnevali nel suo “Calciobalilla”, un gioco nel gioco, una partita di ping pong che si trasforma in pedana di scherma che diventa un finale di partita scacchistico beckettiano. Ci si aspetterebbe il classico calcino con gli omini fissi e immobili blu e rossi impagliati nelle stesse pose lungo le assi di ferro a muoversi soltanto lateralmente, e invece ecco la prima sorpresa: la scena. Una lettura a tavolino con i due attori (Fabrizio Martorelli e Stefano Moretti efficaci, tormentati, turbolenti, furiosi, provocatori, molesti) e il regista-direttore d'orchestra (Claudio Boschi kantoriano), tre voci profonde radiofoniche, e microfoni che colano e calano a piombo ad ovattare il suono, ad imperlarlo, ad emanciparlo, a riecheggiare lo spazio. Il testo, un'operetta gioiosa e furiosa, è un perdersi futurista, è una continua rivelazione ed epifania, è un cadere e ripartire come le corse attorno a questo tavolo-campo di battaglia, è una rima dietro l'altra che amplifica il senso ma che al tempo stesso lo dissolve, lo distrugge, impastando tutto in un'onda, in un'armonia dove è piacevole naufragare e lasciarsi cullare. I due hanno fogli in mano, adesso sembra un doppiaggio ed è proprio quando ti concentri sui movimenti di quest'esperimento che emerge prepotente il testo (ha aperto spazi Happy days-Santomauro.jpegriconducibili al “Cyrano de Bergerac” di Rostand) e le sue parole concatenate, ed è proprio quando surfi sulle sillabe che la macchineria meramente teatrale si esalta e vive e guizza tra gol o canzoni sudamericane che mordono l'anima, infarti d'assonanze, disillusi come filastrocche, abbandonati nei rimandi semantici, sovraesposti negli sberleffi, orfani di calembour. In definitiva la vita è “una partita di calcio da giocare da fermi”. Diceva un anonimo: “Mi sento come se nella partita di calcetto di ieri io fossi stato il pallone”.

Si ride, a tratti smodatamente altre amaramente, con gli “Happy Days” di Stefano Santomauro, terza appendice comico-grottesca sulle italiche falle comportamentali, dopo “Fake Club” e “Like”. Il livornese è scatenato, riempie la scena, la fa sua, e somiglia, come impatto, forza espressiva, argento vivo addosso, a Jack Black in “School of Rock”. Le sue analisi sul reale certo sono declinate sul brillante cercando sempre di ridere delle tragedie, ma hanno tra le righe il desiderio di comprendere meglio i nostri tempi bui, di sviscerare l'affresco degli anni, caotici e in continua evoluzione, che stiamo vivendo, o subendo, sulla nostra pelle stanca. Qui si parla di felicità rapportando il Bel Paese al Nord Europa, alla Scandinavia dove, nonostante il clima inclemente e l'alto tasso dei suicidi, sono sempre nelle prime posizioni nella classifica dei popoli più happy per reddito, welfare, aspettative di vita, onestà e fiducia nel governo, salute. Perché, si chiede e ci interroga Santomauro (uno dei crack del Fringe a livello di pubblico presente), sempre spigliato e pimpante, frizzante ed esplosivo, con la sua classica veemenza e la sua postura guerrigliera da mitragliatore, se in Italia abbiamo tutto non riusciamo ad essere felici come quelle nazioni che hanno meno di noi? Cosa è successo? “Perché ci siamo ridotti in questo Stato?”, cantava Caparezza, con la S volutamente maiuscola. Quindi l'indagine (scritta in collaborazione con Marco Vicari e Daniela Morozzi) del comico livornese (che ha tempi e scansioni e ritmo perfetti) è tutt'altro che leggera, ci stuzzica, ci fa riflettere, continuando a ridere di gusto, tra pezzi talmente assurdi di autobiografia da essere realmente accaduti. Il suo sguardo è quello incisivo che trafigge di Van Gogh, le sue mani frullano, non perde un colpo, trascina le folle, è un capopopolo battagliero e sa come arringare la platea. Si esce più consapevoli, con tante domande alle qualiuna_cena_daddio.jpg rispondere sorridendo. Forse più felici. “Ha stato lo Stato”, urla un murales.

Un divano e un interno borghese ci attendono sulla scena di “Una cena d'addio” degli Onda Larsen nel loro teatro rinnovato con uno spazio all'esterno in stile baita, un vero e proprio foyer all'aperto ospitale e accogliente. L'ambientazione e la cadenza, l'andamento e il ritmo, le situazioni e la scelta delle parole sono indubbiamente francesi (gli autori sono gli stessi de “Il nome del figlio” trasposto anche in Italia), e alle gag e ai misunderstanding si sommano grandi valori sociali, civili e quel pizzico di cinismo che rende il tutto più interessante e pungente, certamente divertente. Ad essere sul tavolo anatomico è l'amicizia. Una coppia decide di seguire l'esempio di un loro conoscente che organizza delle cene d'addio con i suoi amici per “tagliare i rami secchi” delle relazioni inutili e circondarsi di nuove persone più stimolanti. I tre in scena (Lia Tomatis, Riccardo De Leo, Gianluca Guastella tosti) hanno piglio brillante, i dialoghi tengono, la tensione regge: marito, moglie e il terzo incomodo, perché la compagna di quest'ultimo non si è neanche degnata di presenziare, senza avvertire, alla cena-resa dei conti. E infatti escono fuori, come in un duello da Far West, le acredini incancrenite da anni, i difetti nascosti e mal sopportati, le crepe non dette, i livori sotterranei, le ragioni taciute per il quieto vivere, le litigate postdatate. Viene fuori tutto, come un vomito irrefrenabile, tra nevrosi e psicoanalisti, tic e egocentrismi, manipolazioni e consuetudini noiose. Una sorta di Ultima Cena per azzerare le amicizie ormai meccaniche senza più l'intimità che le hanno generate (ricorda “La cena dei cretini”, non a caso francese anch'esso). Si ride molto di noi, del nostro avere bisogno degli altri e allo stesso tempo del nostro essere antisociali; in una parola sola, bipolari: “Di quei violini suonati dal vento l'ultimo bacio mia dolce bambina brucia sul viso come gocce di limone l'eroico coraggio di un feroce addio”, Carmen Consoli docet.

Tommaso Chimenti 02/06/2022

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