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Todi Festival: in Umbria arte e teatro sono di casa

TODI – Todo Todi. A misura d'uomo. Si respira passeggiando dalla Cattedrale fino alla Chiesa di San Fortunato, il sole colpisce le pietre secolari creando ombre antiche. La musica classica in filodiffusione, un attore vestito da Dante declama alcuni versi, mentre due matrimoni si fanno fotografare sulle scalinate accompagnati da auto d'epoca. L'atmosfera è retrò in questa provincia sana dove l'occhio si perde nel panorama dolce di ulivi, tetti di embrici e vigne al sapore di Sagrantino corposo che asfalta lingua e palato. Pur essendo un piccolo centro l'arte sgorga da ogni strada: maestri scultori, ceramisti, artisti pittorici qui hanno le loro botteghe. Il turismo straniero è mordi e fuggi come addentare una bruschetta con il tartufo. Due fondazioni internazionali hanno qui 240860133_10215655330014679_3706660520215484974_n.jpgla loro sede: quella dedicata a Beverly Pepper, i cui interventi scultorei nel parco che sovrasta la città ricordano giganteschi cacciaviti arrugginiti installati tra un campo da basket e la torre della fortezza che proteggeva la città, e quella di Arnaldo Pomodoro, al quale è dedicata una mostra, con l'imponente foglia-osso di seppia e il labirinto con i visori, e le quattro colonne in piazza a coprire e nascondere, a disegnare ed esaltare la facciata della cattedrale. Arte da ogni poro. Due festival cinematografici e due teatrali, il Bengodi. Da cinque anni affiancato al “Todi Festival” (28 agosto – 5 settembre), per la direzione di Eugenio Guarducci, con gli spettacoli on air al Teatro Comunale, è nato e si è consolidato il “Todi Off” diretto dal regista Roberto Biselli e dal suo Teatro di Sacco perugino (con la preziosa collaborazione di Biancamaria Cola, factotum presente, figura centrale) con un programma parallelo in scena al “Nido d'Aquila”, spazio alternativo con uno degli scorci più suggestivi di tutta Todi tra colonne e tramonti, una dolcezza infinita che ci avvolge. Oltre agli spettacoli il "Todi Off" organizza laboratori d'alta formazione per attori, quest'anno erano presenti Vetrano/Randisi, Liv Ferracchiati, Francesca Della Monica. Il simbolo emblema, il segno distintivo della rassegna è quest'asola bucata da due aghi-lance che potrebbe sembrare anche una barchetta da migranti alla deriva, sempre firmato da Pomodoro. E ancora incontri letterari con gli autori e questa continua scoperta rappresentata da “Todi Open Doors”, antri, cortili, corridoi, androni di palazzi invasi dall'arte contemporanea, dalle galline metalliche a statue classiche di pane, ad ogni angolo per meravigliarsi, per finire con il concerto di Loredana Bertè. Todi Caput Mundi. I tuderti non possono certo lamentarsi. E nemmeno gli umbri.

Appena scende la notte la temperatura cala vertiginosamente, l'estate sta finendo, “L'inizio del buio” ci coglie sempre impreparati nel passaggio dall'assolato all'oscuro. Basato sulle parole veltroniane che, tassello dopo tassello, storicizza le fasi italiane e i nostri momenti di declino, l'omonima piece ha il pregio di riunire due eventi, il rapimento di Roberto Peci, fratello del brigatista pentito Patrizio, e la caduta negli abissi di un pozzo del piccolo Alfredino. Che Peci e buio hanno già una radice sintomatica sintattica comune. Il nero dei cinquantacinque giorni di clausura e sequestro e interrogatori e processo del popolo di Roberto (poi è stata ristabilita la verità storica e la sua lontananza e non aderenza al movimento terroristico rosso) e il nero negli occhi in questo buco freddo a Vermicino del piccolo Alfredo. Le vicende, soprattutto quelle del piccolo, sono purtroppo note (e continuano a commuovere a distanza di quarant'anni), le abbiamo già viste, sentite, lette Inizio-del-buio.png(in questo periodo una serie Sky su Alfredino come la piece che porta il suo nome di Fabio Banfo, così come il testo teatrale di Emiliano Brioschi “Life” sull'esecuzione Peci), ma metterle in correlazione, proprio perché scaturite lo stesso maledetto giorno, il 10 giugno 1981, è un'operazione lampante che nessuno aveva ancora cucito assieme. La narrazione dei due attori (Giancarlo Fares e Sara Valerio) è frontale, sulla testa hanno una decina di lampadari che colano come meduse per illuminare le storie, per far luce sotto la benda sugli occhi del primo, tra il fango di quel foro alle porte di Roma il secondo. Non ci vogliamo soffermare sulle storie, come detto note, né sulla recitazione che, diligente, riporta, scansiona cronologicamente in un report ma che niente aggiunge ai tanti programmi televisivi di approfondimento che in questi decenni sono fioriti. E' l'inizio e la fine che ci hanno colpito, che hanno attirato la nostra attenzione: prima l'espediente narrativo di identificare la piccola televisione arancione psichedelico, anni '70-'80, come un neonato nella sua culla e la chiusa che sbiadisce il pathos degli eventi narrati. Sembra quasi che Veltroni, questa è la sensazione, abbia preso a pretesto queste due vicende, così lontane e così vicine, per spiegarci come la televisione, soprattutto quella privata e commerciale (gli anni '80 vedranno il boom delle reti berlusconiane), ci abbia cambiato, impoverito, mutato ovviamente in peggio. Una tv volgare che ci ha involgarito, una tv stupida che ci ha istupidito, una tv violenta che ci ha affamato come lupi e incarognito come iene. Una tesi che potrebbe essere anche giustificabile ma non partendo da questi due eventi delittuosi, il primo commesso dalle BR (che ricordiamo qualcuno definì “Compagni che sbagliano” quasi giustificandone bonariamente l'operato), il secondo dall'incuria, dalla superficialità, dalla mancanza di regole e attenzione. Per colpire la televisione e il suo immaginario, questo ci è sembrato, per colpire la deriva del tubo catodico alla quale siamo stati esposti come gli abitanti di Chernobyl alle radiazioni, prendere in prestito, per puro espediente letterario, la giustizia sommaria di gruppi violenti e la morte atroce e straziante di un bambino nel freddo di una fessura a decine di metri sottoterra nella pancia della terra nel mezzo del nulla, ci sembra francamente eccessivo. La battuta finale, in dialetto romanesco, riesce in un attimo fatale a raffreddare cuore e spirito, a gelarci la commozione accumulata, a rattrappire la nostra partecipazione emotiva.

Tu mi fai girar come fossi un “Bambolo”, anche se quello messo in scena dalla regia di Giampiero Judica per la drammaturgia di Irene Petra Zani rimane fermo, immobile, statico. it_15-09-il-bambolo-quadrata_original.jpgUn testo che è una frattura, una ferita lancinante questo amore squilibrato, questa unione di disagio, questa coppia formata da una ragazza (Linda Caridi) e il suo uomo gonfiabile. La ragazza si è rifugiata in questo amore univoco, a senso unico, antropomoforfizzando un ammasso di plastica e aria dalle fattezze umanoidi maschili; con lui parla, crede di guardarsi, crede di capirsi. E' evidente lo stato prostrato di sofferenza, l'acre dolore che, grottescamente, sprizza da ogni scena ossimoricamente colorata. Da questa situazione limite, quasi hikikomorica, da questa clausura volontaria avendo come unico referente di confronto un oggetto inanimato sul quale poggiare sentimenti e sensazioni, risposte e amore a specchio (“la cosa più bella è parlare con te”), passiamo  al tema anoressia che potrebbe sembrare abbastanza forzato. Dalla solitudine al rifiuto del cibo. Ma non è finita qua perché, proprio quando la piece sembra concludersi, dopo una prima parte visionaria e rarefatta, arriva il carico e tutto torna ad essere realistico. L'autrice ci vuole spiegare il perché dell'anoressia e della solitudine incasellando in ordine tutte le componenti sfiorate, dandoci tutte le risposte alle domande aperte. Ma forse il teatro deve porre punti interrogativi non fornire soluzioni. Quindi veniamo messi al corrente che tutto è dipeso dalla violenza che il padre le ha usato, dalla depressione della madre: il teatro si sgonfia così come il bambolotto.Federica Fracassi 5Luigi Di Palma scaled

Ecco un testo, ecco una scena, ecco un'attrice, ecco una regia, signori ecco il teatro. Su un piano sdrucciolevole, in profonda discesa pericolosa, inclinato, scivoloso e faticoso, emblema metaforico e simbolo sia interiore di caduta sia socialmente come argomento da affrontare, una donna (una meravigliosa e intensa prova di Federica Fracassi, Premio San Ginesio '20 e Premio Hystrio '21, finalista Premio Le Maschere '21) vive la sua crisi di mezza età, soffre e affronta la sua “Febbre” che la sconquassa, la sobbalza, la smuove, la scuote in profondità. Una crisi che serpeggia nella nostra società che ci indora la pillola, che ci fa avere interessi che ci spingono lontano dalle cose che veramente contano, che ci fa parlare di tv, vestiti e moda allontanandoci da noi stessi, dall'essenza interiore, coscienza o spirito, che dentro continua a pulsare seppur soffocato da milioni di sovrastrutture che tentano ogni giorno di annegarlo, di toglierci la terra da sotto i piedi. Il testo dello statunitense Wallace Shawn, per la regia di Veronica Cruciani (un bel binomio di donne, regia-attrice, anche se lo spettacolo in precedenza negli USA e a Londra era messo in scena da uomini; ma la scelta ci pare azzeccata), ci porta dentro il delirio di una cinquantenne borghese che, tra momenti di lucidità dove rafforza e difende la sua idea di essere parte integrante del Primo Mondo alternando attimi di apertura, solidarietà e presa di coscienza di avere le mani insanguinate del dolore di milioni di persone sparse nel Globo, si sdoppia bipolarmente scivolando dentro l'abisso di ciò che è e di ciò che avrebbe voluto perseguire.

E' una progressiva caduta del personaggio infilandosi dentro il buco nero delle nostre vite superficiali e di facciata mentre la gente muore come mosche per garantire a noi aVeronica Cruciani.jpgperitivi e divertimenti, svaghi e lustrini che adesso vediamo e consideriamo come normalità e non come surplus e benefici. La Fracassi ci tiene in scacco fin dall'inizio perché anche noi, come il suo personaggio, siamo colpevoli o quantomeno complici di un Sistema che poi fingiamo di combattere e condannare con le adozioni a distanza, le elemosine, i cibi bio, l'accoglienza dei migranti, il non comprare olio di palma, andare al cineforum per constatare attraverso documentari la povertà e la violenza di alcuni Paesi e indignarci e commuoverci prima di andare a cena nel ristorante di grido. Ma siamo anche pedine, ingranaggi di una fabbrica più grande dalla quale, se non con azioni eremitiche e di rottura totale con il nostro mondo, rinnegandolo, che difficilmente riescono a liberarsi, a spezzare le catene dell'ipocrisia nella quale siamo cresciuti e imbevuti. Potremmo definire questa figura una radical chic di sinistra con profonde crisi valoriali che le provocano squilibri interiori, nella claustrofobia di questo bagno che gronda sangue (dentro la vasca-liquido amniotico coperta e imbrattante di rosso-corrida ci è arrivata in soccorso l'epifania dell'iconico “La morte di Marat” di Jacques-Louis David). La febbre la porta a delirare tra discorsi da aperitivo, “Mi piacciono i quadri di Matisse, mi piace la bellezza, mi piacciono le tazzine di porcellana” e la critica sociale, tra il cinismo di “Bella la sensazione di avere soldi in un paese povero” e il pensiero che vola alle guerre civili (non può non venire in mente Kabul). Un testo acido che non ti lascia tranquillo, che punge continuamente, scomodo perché ci mette davanti ad uno specchio indicandoci chi siamo, chi siamo diventati. Lo scompenso non può non attanagliare chiunque si fermi un attimo a pensare e a riflettere per poi riprendere la nostra esistenza di appuntamenti ed eventi irrinunciabili prima della prossima crisi. Alterna il pensare alle torture con la corrente alla voglia di gelato, gli stupri sistematici delle ragazze e la ricerca di raffinatezza e morbidezza. “Abbiamo bisogno di conforto, di consolazione” ci dice e in quell'attimo è la Pietà michelangiolesca e nello stesso momento è sia la Madonna che tiene in braccio il figlio, sia Gesù abbandonato sulle ginocchia della madre. Confessa: “Faccio tutto quello che posso per essere una buona e brava persona” ma qualcosa si è rotto dentro e vomita veleno: “La nostra vita non ha una giustificazione”. “I diritti degli uomini devono essere di tutti altrimenti chiamateli privilegi” sentenziava, facendoci vedere il marcio insito in ognuno di noi, Gino Strada.

Tommaso Chimenti 02/09/2021

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