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“The Aliens” al Teatro Brancaccino: la forza silenziosa dell’amicizia

Nel retro di un bar, tra una vecchia sedia a sdraio, un tavolo arrangiato, secchi dell'immondizia accostati ad un muro di mattoni grigi, KJ e Jasper, muovono le loro vite con lentezza.
Sembrano poco stimolati, due trentenni attaccati al fumo di una sigaretta o a un thè da portar via, come fossero le loro uniche àncore di salvezza.
Non hanno nessuna intenzione di entrare nel bar, di interagire con gli altri, restano isolati, alienati, a discutere fra loro di Bukowski, di musica, di amicizia, di arte, di amore e di morte.

The Aliens1Mentre il tempo scorre sottolineato dalle didascalie che appaiono sullo schermo di fondo, pian piano, si delineano i loro caratteri e le loro profonde aspirazioni: KJ scarabocchia periodicamente idee per un libro, è più risoluto di quel che sembra (forse...). Jasper ha avuto gravi problemi con l'alcol ma è un ragazzo positivo e dall'animo delicato. Hanno formato una band, non potendo accordarsi su un nome, pensano di avere risolto la loro diatriba chiamando la band “The Aliens”, ma alla fine è solo un'altra decisione che hanno quasi fatto, ma che non hanno portato a termine.
Eppure continuano a sognare. Nel loro mondo entra Evan, un giovane ragazzo da poco assunto come cameriere del bar, è timido, con poche esperienze, un po' naif e con l'angoscia adolescenziale. Lentamente, decidono di insegnargli tutto sulla vita, ma dalla loro prospettiva.

Sono tutti dei “geni”:  Jasper,  JK e anche il giovane Evan, “ma nessuno lo sa,  all’infuori di loro tre”, parafrasando una famosa frase di Bukowski.

La musica interviene come elemento in grado di rafforzare i caratteri e le relazioni esistenti: l’accompagnamento musicale e le canzoni originali sono di Michael Chernus, Patch Darragh ed Eric Gann. Un testo delicato dove nessuna parola è sprecata, pieno di meditazione e compassionevole. 

Il ritmo è lento ma incredibilmente trascinante grazie alla scrittura asciutta e pungente della giovane statunitense Annie Baker, premio Pulitzer per la drammaturgia nel 2014 e, alla regia di Silvio Peroni, misurata e attenta, capace di restituire in scena un linguaggio complesso, dal carattere frammentato e sincopato. 

Un plauso a parte va, senza dubbio, all’interpretazione di Giovanni Arezzo, Francesco Russo e Jacopo Venturiero. I tre professionisti, creano  i giusti imbarazzi e le reticenze del parlato, con competenza e discrezione; sono in grado di rendere pieni i vuoti, di caricare di significato i silenzi, le pause, ci trascinano nel loro mondo, riuscendo anche a farci sorridere più di una volta.

È facile così, immergersi in un'atmosfera rarefatta, ci si lascia trasportare dai racconti e dalle preoccupazioni dei protagonisti, ci inteneriamo, ridiamo e riflettiamo con loro soprattutto quando, nel corso della storia,  si consuma un dramma  capace di trasformare i personaggi e, forse, il nostro sguardo nei loro confronti.

Un gioiellino da applaudire.

Miriam Larocca 08/11/2017

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