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BOLOGNA – Da Emma Dante ci aspettiamo sempre molto. Troppo. O almeno, ogni volta, quel quid in più che tante sue drammaturgie hanno mostrato, quel senso ineffabile d'umanità, quel modo disgraziato di stare al mondo, quella dignità miserevole, quel marcio che sta dietro i paraventi, quei cuori malati compressi da questo mondo freddo all'impossibilità, all'emarginazione, alla solitudine. Dalla sua “Trilogia degli Occhiali” di qualche stagione fa, composta da “Acquasanta”, “Il castello della Zisa” e “Ballarini”, questo “Il tango delle capinere” (prod. Atto unico, coprod. Biondo, ERT teatro Nazionale, Teatro di Roma, Carnezzeria) altro non è che l'apertura, l'allargamento, lo sviluppo e la diluizione dell'ultima trance. La canzone omonima che dà il titolo, che ovviamente chiude la pièce circolare, alludeva ai temi del disagio sociale e al fascino della prostituzione, cose che, entrambi i temi, non abbiamo riscontrato nella visione dello spettacolo. Possiamo dire che le tematiche emmadantesche sono qui annacquate, portando alla luce un amore lineare, “democristiano”, senza scossoni, un sentimento pulito, tranquillo, se vogliamo anche facile e semplice, conservatore Tango-delle-Capinere_22-credit-Carmine-Maringola-e1674981673329.jpge tradizionalista. Manca proprio la materia sulla quale si è sempre cimentata la regista e drammaturga palermitana, gli ultimi, i rifiuti della società e le dinamiche di salvezza, di religiosità laica, di superstizioni e riti impastati di povertà e sogni strozzati in gola.

E' un amore al contrario, dalla fine all'inizio, a ritroso nel tempo, dalla vecchiaia fino al primo bacio e oltre, una sorta di Benjamin Button dove l'innocua drammaturgia è quasi totalmente musicale oltre ai corpi, calibrati, ben rodati e affiatati, di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, attori feticcio raffinati e materici, coppia anche nella vita, lui fascio di nervi, filiforme, lei muscolare e materna. L'atmosfera è circense e fisica. Da due bauli escono gli attori, lei in primo piano nella luce, lui nell'ombra sul fondo, e sembra subito di essere catapultati dentro “Finale di Partita” ricordanrosellina garbo 2023 _GRG8365.jpgdoci i due vecchissimi genitori di Hamm, Nagg e Nell, che vivono dentro due bidoni della spazzatura. Ripetiamo qui del senso del guasto e putrido non se ne sente proprio l'odore né il tanfo. E' invece presente la pìetas come sentimento di affetto e devozione. Anzi ci sono palloncini e coriandoli, come regali e paillettes per un sentimento consolatorio. Il tratto semplicistico e molto didascalico però è senza dubbio l'uso delle musiche per identificare il tempo della coppia, uno sciorinamento di ballate nazional-popolari all'interno delle quali è difficile non ritrovarcisi o cadere in una sorta di comodo e nostalgico dejà vu. Due anziani vestiti di bianco ballano addormentandosi l'uno sull'altro, lui respira a fatica, lei è ingobbita, tossiscono (anche i colpi di tosse torneranno più volte come gesto-amuleto in questa drammaturgia scarna) mentre un carillon suona e ritornerà come oggetto talismano, piangono e ridono.

Arrivano i tormentoni nei quali il pubblico si riconosce: “E se domani” di Mina ('64) mette i brividi, “Lontano, Lontano” di Tenco ('66) emc9a3922c11b3c1647a72f753ed5f1ea1_XL.jpgoziona. Più che il tempo torna agli albori e più che i due amanti si tolgono abiti e assumono nuove e più elastiche e giovani posture (bravissimi i due interpreti-performer nel giocare e manipolare il proprio corpo, lui pinocchiesco, lei Fata Turchina accogliente). La partitura musicale (escamotage abusato) prosegue con “Il ballo del mattone” di Rita Pavone ('61), si approfondisce con “Se mi vuoi lasciare”, brano di Michele ('63), passando per “Natale” di De Gregori ('78), tornando ai “Watussi” di Edoardo Vianello ('63). Tornano al matrimonio, tema ricorrente nella Dante, è ancora il carillon che ci suggerisce il fil rouge confortante e rasserenante, la comfort zone dell'amore. In sequenza, come se fossimo in una balera, arrivano “Fatti mandare dalla mamma” di Gianni Morandi ('62), proseguendo con “Ba ba baciami piccina” di Alberto Rabagliati ('40) per infine gettarsi tra le braccia de “Il tango delle capinere”, portata al successo da Gabrè, ('28) per un ultimo ballo di questo amore secolare mentre lui, tornato bambino, viene preso in braccio da lei divenuta sua madre che se lo coccola in braccio sostenendolo, addormentandolo per un perfetto ciclo vitale, come se la morte fosse una nuova nascita. Per la paura di uscire da quel guscio caldo in posizione fetale nasciamo, per timore dell'ignoto in posizione fetale rannicchiati moriamo.

Tommaso Chimenti 03/03/2023

TRIESTE – “Ancor oggi il tango conserva quel qualcosa di proibito che stimola il desiderio di scoprirlo sempre un po’ di più e quel qualcosa di misterioso che ci ricorda quel che siamo stati o, forse, quel che avremmo voluto essere” (Jorge Louis Borges).
“La mia musica è triste perché il tango è triste. Il tango ha radici tristi e drammatiche, a volte sensuali, conserva un po’ tutto... anche radici religiose. Il tango è triste e drammatico ma mai pessimista” (Astor Piazzolla).

Esiste altra musica, se non il tango, per esplicare ed esemplificare il contatto, ma anche il contagio, la febbre che sale scena dopo scena del “Romeo e Giulietta” shakespeariano? Anche se quattrocento anni fa (il 23 aprileromeo2 1616 moriva il Bardo di Stratford-upon-Avon) il tango, evoluzione oltreoceano del liscio nostrano ballato a sud dell'equatore tra pampa e gaucho, non era ancora stato inventato, quella passione, quei passi, quelle mani addosso, quegli scarti recalcitranti per poi lasciarsi andare e cadere nelle braccia l'uno dell'altro sembrano essere la fotografia postuma di quell'amore giovanile universale mai consumato, schiacciato dall'odio, compresso dalle famiglie, ucciso da diatribe politiche che niente avevano a che fare con la purezza e dolcezza, con la limpidezza e il chiarore di questo sentimento così leggero e così profondo.
“Il tango è un pensiero triste che si balla” (Enrique Santos Discépolo). Luciano Padovani è uno specialista nel portare il tango a teatro, drammatizzandolo, coniugandolo con concetti classici, declinandolo a favore di drammaturgie. Questo è il suo quinto spettacolo dove al centro, e in sottofondo, visibile e come fil rouge, sta imperioso e impetuoso il tango argentino nel quale la forza si mischia alla dolcezza, la sensualità all'impossibilità dell'aversi, gli sguardi e la carnalità si fanno cosa viva e pungente. Sei coppie ad orchestrare tutto il parterre dei personaggi della tragedia, quattro tangueri e otto danzatori contemporanei. Anche questo mix di impostazione da una parte e improvvisazione e rottura degli schemi classici dall'altra, di rigidità e flessuosità, di movimenti certi, fermi, dritti, tenaci che si incastrano con armonie rotonde e gesti scardinati crea un afflato di sorpresa, un respiro incandescente che sovviene e monta ad ogni scena.
romeo3“Il tango è saper camminare abbracciati” (Carlos Gavito). Particolare l'idea del regista e coreografo Padovani (e della sua compagnia vicentina Naturalis Labor) in questo “Romeo y Julieta tango” (visto nel magnifico Teatro Rossetti di Trieste); i Capuleti sono tutti impersonati da donne e ragazze, mentre i Montecchi sono tutti uomini. Gli incontri-scontri, infatti, prendono anche una piega di frizione e onda d'urto tra i sessi, quel cercarsi e non capirsi tra maschi e femmine, quell'averne bisogno e non poter del tutto convivere, quelle diversità che annusiamo e desideriamo con ardore per poi allontanarcene con distacco. Il tango è proprio questo, caldo e freddo che si miscelano per creano spaesamento e brivido. Il campo della pièce si trasforma in una milonga con il bandoneon straziante che fruscia come i piedi sul palco a scandire un tempo che è più dell'anima e del sogno che quello reale del possibile. E' come se il tango ci raccontasse le potenzialità dell'animo umano, l'andare oltre le apparenze per superare l'impossibile. Il tango è forza e fragilità, senza che questi termini vengano necessariamente associati il primo al maschile e il secondo al femminile.
“Il tango dà un passato a chi non ce l’ha e un futuro a chi non lo spera” (Arturo Pérez-Reverte). L'orchestra dal vivo, i quattro di Quartango, riempiono di vita malinconica ogniromeo4 spazio sonoro con feroce dolcezza. Non siamo a Verona, o non vi è niente che ce lo indichi, ma non è presente nessun elemento che ci spinga in una città, luogo o situazione precisa: questo R+J è atemporale e senza indicazione spaziale ma l'unico, gigantesco e imponente, oggetto di scena, che riempie gli occhi con la sua robustezza e solidità, è una porta in legno, alta e spessa e massiccia, che fa da apertura ma anche da balcone con la finestrella che si apre sopra portandoci nel mondo delle fiabe delle principesse che si scioglievano i capelli per far salire gli amati nelle loro stanze protette. Un portone che può aprire il sogno e le braccia della felicità mentre, una volta reclinato al suolo, si fa, purtroppo per i due amanti, bara e tomba, sarcofago pesantissimo che niente e nessuno potrà sollevare. Nel finale, in quella presa fatale, tutte le ballerine e danzatrici sono una Giulietta in rosso muovendosi all'unisono strette nell'abbraccio e delle giravolte di tutti i danzatori-moltiplicazione dei Romeo in camicia bianca. Alcuni amori sono accettati, e pianti e capiti e compresi, solo quando non possono più portare il “cattivo esempio”. Chi non ha vissuto un amore impossibile non ha vissuto l'amore.

“Le gambe s’allacciano, gli sguardi si fondono, i corpi si amalgamano in un firulete e si lasciano incantare. Dando l’impressione che il tango sia un grande abbraccio magico dal quale è difficile liberarsi. Perché in esso c’è qualcosa di provocante, qualcosa di sensuale e, allo stesso tempo, di tremendamente emotivo” (Jorge Louis Borges).

Tommaso Chimenti 25/04/2017

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