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Dopo Carver, Tennessee Williams, il secondo step della trilogia "Sogno Americano"

MILANO – “Tu vuoi l'America, che sta al di là del mare, tu vuoi l'America, che io non ti posso dare” (Edoardo Bennato). L'idea del regista Francesco Leschiera e del suo Teatro del Simposio è ambiziosa: indagare tre mostri sacri della letteratura americana attraverso drammaturgie originali scaturite da un mix tra le biografie dei personaggi e i loro capolavori. Se tre anni fa esatti debuttavano con il primo step della Trilogia su Carver (qui la recensione di “Ray. Con tutta quell'acqua a due passi da casa”: https://www.recensito.net/teatro/american-dream-ray-carver-francesco-leschiera.html), il secondo capitolo è stato incentrato su Tennessee Williams mentre il terzo sarà su Truman Capote. Sullo sfondo gli anni '60 con alcune particolarità da sottolineare che fanno da comune denominatore delle tre messinscene: la scenografia sarà la stessa (un tavolo e poche sedie e una madia) come a dire che l'humus culturale, storico, economico sia lo stesso, tre saranno sempre i personaggi in scena, e sempre saranno presenti alcool e fumo. Con queste linee di demarcazione, con questo recinto strutturale e concettuale, sia per quanto riguarda il trattamento su Carver sia questo su Tennessee Williams, “Whisky Circus”, scritto da Zeno Piovesan (visto al Teatro Linguaggi Creativi vicino ai navigli milanesi), possiamo affermare che centrale sia questa grande sofferenza e disillusione, una tristezza che si trascina, un baratro che si spalanca sempre più sotto i piedi, nessuna via di fuga, 

6461.jpgnessuna alternativa né strada parallela da percorrere o intraprendere e l'abisso che si avvicina a grandi falcate senza che nessuno dei protagonisti abbia la forza e l'energia, l'entusiasmo, il desiderio di scansare il precipizio ma anzi, vittimisticamente, ricercano la sconfitta, la caduta senza possibilità di potersi rialzare.

Qui, in un disegno di dramma domestico quasi da cabaret o da varietà con le lucine accese sul boccascena, siamo all'interno di un Luna Park stralunato, di un Circo tragico e ambiguo composto da un solo numero in una piccola stanza di un appartamento. Uno zio (Ettore Distasio sul palco è enigmatico e sobillatore), che ha i tratti dell'incestuoso e del padre padrone, che potrebbe essere simbolicamente lo Zio Sam, l'America stessa con cappello e divisa a stelle e strisce, un'America che illude ed esalta, che stritola e corrompe, che svuota, che possiede, che usa e sfrutta, che spolpa con le sue false abbaglianti bagliori e fulgori che camuffano e trasformano la realtà, uno Zio Sam che ti liscia con le sue bugie fino a farti capitolare, che ti convince come un serpente a sonagli fino a portarti nella sua tela e rete, che ti manipola anaffettivamente fin quando non ti ha depredato di tutti i tuoi averi e valori, fin quando non ti ha derubricato a cosa, ad oggetto da muovere a proprio piacimento. In questa sorta di boudoir di quart'ordine, sciatto e squallido, sporco e unto, viscido e maleodorante dove è il disagio ad essere il vero prim'attore, una ragazza, una contorsionista ormai però annebbiata dall'alcool e depressa e senza più volontà, incontra, con il placet dell'esattore zio che le procaccia i clienti come ruffiano e pappone, clienti che pagano per restare soli con lei, per assistere ad un numero che non esiste più.

La Sogno-americano--678x381.jpeggiovane (Greta Asia Di Vara ha innocenza e oscurità) è l'unica superstite dei freaks di questo mirabolante e fantomatico circo viaggiante, quest'epoca dorata (che forse non è mai esistita) della quale si vanaglorifica lo zio intrallazzone e affarista senza scrupoli. Sono personaggi fragili e indifesi, ognuno dipendente dall'altro. La ragazzina ha addosso lo strazio e il tormento dei volti femminili di Vermeer, ha tatuato nell'anima il fallimento, ha abbracciato la perdita, ha sposato il progetto dello smacco perenne e imperituro, si è votata al tracollo. Vive rannicchiata in un cubo di vetro (anche questa immagine potente di alto simbolismo) rassegnata come un rettile in una teca aspettando che la tirino fuori per l'esibizione desolata e misera della sera, una campana di cristallo che finge di proteggerla dai mali dell'esterno ma che anzi, al contrario, la fa essere carne da macello in mostra, in vetrina al miglior offerente, esposta alla mercé come oggetto in prestito, affittabile, cosa, prodotto da poter utilizzare. E' sempre impaurita e titubante, spesso ubriaca in preda alle sue ansie e frustrazioni come alle sue convinzioni che, in perfetta linea con la Sindrome di Stoccolma, la fanno parteggiare per lo zio sfruttatore, irradia attorno a sé la sua aria mesta, la sua cappa lenta di disfatta, lei che è “il contrario di un angelo”, che è “un pugile all'angolo”, che “vive dentro una prigione”, che “per un ti amo mischierebbe droghe e lacrime” ma che non sa più che cosa sono i “brividi” immersa nell'abbandono e nella desolazione quotidiana in questo mare di schifo che fa male solo a pensarlo, che ferisce al solo annusarlo.

Nell'incastro patologico tra lo Zio e la nipote entra ad interrompere il rapporto, fatto di violenze e sopraffazioni come di 6461_5.pngminacce e intimidazioni psicologiche, il Cliente (Mauro Negri haberiano) che paga e che, come nelle migliori tradizioni, la vuole “salvare” e portare via da tutto quell'ammasso di ribrezzo, sporcizia, indecenza e disgusto che ti si attacca alla pelle come grasso indelebile. I due uomini contrattano sulla pelle della ragazza, come fosse una merce da poter comprare o vendere a seconda del punto di vista. Manca l'amore e il rispetto. Quasi si percepisce l'odore di quella povertà che prima di essere economica è interiore. L'atmosfera sa di polvere e disfacimento e sembra uscire direttamente dalle pagine dello “Zoo di vetro” come da i “Blues”. Sono strazianti e devastanti questi spettri marciti nel senso di colpa, contaminati dal non avere un futuro da sognare, impantanati e infangati in questo “Sogno Americano”, il titolo della trilogia di Leschiera e compagni, che si fa sempre più incubo urlante, affannoso e opprimente, in questa discesa agli inferi, in questa schianto e tonfo sordo nel tunnel nero della perdita dell'autostima, nella vergogna, nello sfruttamento. Sono tre facce di una stessa medaglia, derelitti, affranti con aspirazioni azzerate, con ambizioni svilite, conigli sacrificali sull'altare dei soldi.

“E in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà, e dalle porte della notte il giorno si bloccherà. Un applauso del pubblico pagante lo sottolineerà e dalla bocca del cannone una canzone suonerà” (Francesco De Gregori).

Tommaso Chimenti 09/04/2022

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