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“Scusate se non siamo morti in mare”: l’eterno ritorno della vita

Ottobre 2013. In una manifestazione di migranti, a seguito di un tragico naufragio nei pressi di Lampedusa, uno striscione riporta la frase: “Scusate se non siamo affogati”.
Marzo 2017. Al Teatro India di Roma, sede migratoria temporanea del Teatro dell’Orologio, si rappresenta “Scusate se non siamo morti in mare”, scritto da Emanuele Aldrovandi, diretto da Pablo Solari.
È un futuro ipotetico, propaggine della crisi che viviamo. Un tappeto fatto da cartoni attaccati tra di loro è l’interno di un container. Quattro personaggi. Una giovane nord africana laureata in medicina in Italia (Luz Beatriz Lattanzi), un Scusatese2arrivista, complice della banca rotta di un’impresa, ricercato e in fuga (Daniele Pitari), un giovane scrittore benestante, alle prese – di nascosto - con una docufiction sui nuovi migranti (Marcello Mocchi). A traghettarli verso un destino che resta ignoto, è il sadico proprietario del mezzo di trasporto (Matthieu Pastore).

L’intuizione sottesa dal testo è importante: la crisi è un momento biologico della storia e il movimento, il flusso di migranti che ne deriva, è uno spostamento naturale, che avvicina gli uomini al mondo animale.Anche le balene compiono grandi migrazioni negli oceani, per riprodursi in acque più calde e accoglienti, quelle della California. Nuotano in branco, lungo le coste, a decine, a centinaia.
Ci sorprende il dubbio che la stabilità nella vita sia stata solo una bugia temporanea, di un’epoca dell’uomo già passata. I giovani s’imbarcano trascinati da un inganno, ognuno ha una meta diversa in testa, nessuno sa quella giusta. La ragazza conosce la lacerazione del “lasciare” la terra. Il nord Africa, la nonna che le cantava parole che non vuole e non sa più ripetere, venirne informata della morte a distanza, dopo anni. Nell’abbandonare, nel riformularsi, è compreso del coraggio. Se ci si abitua, ci si rafforza dietro a una patina, sempre più dura, intorno alla disperata sensibilità dei sentimenti. “Spaccagli la valigia in testa mentre dorme!”, suggerirà allo scrittore, minacciato dall’arrivista del furto dei soldi. “Rubagli tutto nel Scusatese3sonno!”, dirà invece all’altro. Dura come pietra, dottoressa in medicina in una lingua che non è la sua, senza lavoro, perché è passato un secolo da quando l’Europa illudeva come “sorgente di opportunità”.
Chi può scrivere di atrocità, è chi non le vive. “Chi soffre davvero non racconta, perché vuole solo dimenticare”, dice la giovane, diffidente verso chi si impadronisce della sua storia per farne intrattenimento. Una piccola eterna verità: gli intellettuali, spesso, lo sono perché hanno avuto i soldi, si lamentano del sistema perché hanno animo inquieto, non si accontentano.
Tradendo una leggerissima inflessione francese, lo “scafista” del container lancia frasi taglienti da un microfono, li zittisce, li getta a terra con lo schiocco delle dita. È solo, non sa dialogare con nessuno, impartisce ordini, con un piglio e meticolosità da grande dittatore. È disperato, tanto quanto gli altri. Ma ciascuno fa qualcosa per rabbonire la propria pazzia. C’è chi scrive, chi si lega a degli oggetti materiali come se avessero un’anima, chi pensa di fuggire per cambiare ma è sempre lo stesso, e i guai che lascia in patria li ritrova di nuovo giganti, nella nuova terra.Scusatese4
I suoni di Alessandro Levrero sezionano i momenti, li dividono chirurgicamente: le luci si spengono e si riaccendono su nuovi dialoghi dei tre disperati. Il tempo è il quinto protagonista, poiché l’attesa diventa pesante, un calderone di incertezze, pensieri, speranze, amalgamato con l’individualità di ciascuno, scaldato dalle contingenze socio-politiche. Si rimescolano esistenze aspettando, si resta sospesi in un brodo in cui muoversi è doloroso. Si tratta di un dramma che non esplode mai veramente, ben calibrato a una tematica su cui, ogni giovane presente in sala, un po’ soffre in silenzio, un po’ rimugina, un po’ cerca di dimenticare, aggrappato all’àncora delle cose da fare, dei gesti quotidiani che saturano i pensieri e che arrestano lo sguardo sull’evoluzione della vicenda. Ben presto assume le vesti del “gioco al massacro”. Ci si ferisce un po’, guardando archetipi che ben conosciamo.
Finché ci si sveglia un giorno e all’orizzonte gli occhi si riempiono di un movimento incredibile: le balene, in lontananza, nuotano verso le terre tiepide, portando in grembo il principio, in potenza, di nuove vite. Allora, tiriamo un leggero sospiro di sollievo: “la vita andrà avanti, comunque sia”.

Agnese Comelli 05/03/2017

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