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"Museo Pasolini", Ascanio Celestini racconta Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita

Il palcoscenico buio, illuminato solo dalla luce di una lampada dall’alto. Una porta sullo sfondo e una sedia al centro. In una scenografia estremamente essenziale, è in scena Ascanio Celestini, non solo attore, ma anche ideatore e regista dello spettacolo. Chi scrive ne recensirà la prima parte guardata su Raiplay. Inizia a parlare, subito, senza preamboli, senza presentazioni. Racconta di alcuni musei che esistono nel mondo: il Louvre, il museo col corpo mummificato di Lenin a Mosca e quello che espone mutande a Bruxelles. Queste poche parole per introdurre lo spettatore al tema della pièce: il museo di Pier Paolo Pasolini, di cui Celestini è idealmente curatore, direttore e guida.
L’attore comunica fin da subito al suo pubblico che il museo nel quale si sta avventurando non è basato su molti oggetti ma sul patrimonio culturale vivente, sulle parole che, come le opere poetiche di Pasolini, sono merce inconsumabile, capaci di sfamare e guarire intere famiglie, generazioni e persino un’intera Italia. Italia che l’ha irrimediabilmente ostracizzato in vita e che, come spesso accade, lo celebra dopo la morte.
Celestini articola lo spettacolo in un bilanciato alternarsi e incrociarsi di storia personale di Pasolini con la storia del Novecento italiano, quasi fosse impossibile rendere conto del Secolo breve senza fare riferimento all’opera artistica dell’intellettuale. L’opera sembra in tal modo voler sottolineare l’imprescindibile legame intrattenuto dal nostro Paese con la figura di Pasolini, un artista a tutto tondo il cui lascito come poeta, sceneggiatore, regista e drammaturgo ha segnato il mondo culturale italiano e non solo. In fondo, come dice Vincenzo Cerami: “Se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini dalla prima poesia fino al film Salò, l’ultimo suo lavoro, avremo il ritratto della storia italiana dalla fine del fascismo fino alla metà degli anni Settanta. Pier Paolo Pasolini ha raccontato cosa è successo nel nostro Paese in tutti questi anni.”
Il flusso di coscienza di Celestini è funzionale a creare suggestive immagini che riportano lo spettatore negli anni e nei posti più significativi della biografia pasoliniana. Si comincia con le origini dell’autore, raccontando dei nonni, chi sono, dove si sono conosciuti. Si parla della guerra, inevitabilmente. Le parole di Celestini guidano il pubblico come se fossero le parole scritte sui cartelloni all’ingresso dei musei. Quelle guide che servono al visitatore per contestualizzare e capire le opere che sta per ammirare. E ciò che sta per apparire davanti ai suoi occhi è il primo oggetto in esposizione: la prima poesia scritta da Pasolini nel 1929, quando aveva solo sette anni. L’anno della firma dei patti Lateranensi.
Continuiamo a seguire la narrazione sulla vita di Pasolini: gli anni dell’istruzione, le vacanze, il fratello in guerra fino ad arrivare a quello che è il secondo oggetto di esposizione nel museo: il cimitero di Casarsa, in Friuli, dove riposano i morti della famiglia. Pasolini diventa adulto, pubblica i primi romanzi e si trasferisce a Roma con la madre. Come era già accaduto nella prima parte dello spettacolo, dove il racconto dell’infanzia dell’autore era occasione per riflettere sulla politica di quegli anni, così il trasferimento di Pasolini è motivo di analisi della vita a Roma. Celestini descrive con dovizia di particolari i quartieri più poveri della città, lo stile di vita della gente che li abitava e lo spettatore è accompagnato nel viaggio grazie anche al supporto di alcune immagini e video di repertorio.
Raccontare Pasolini, infatti, significa anche attingere alle vicende di una serie di “personaggi” che hanno fatto parte direttamente o indirettamente della storia personale del poeta: dal padre Carlo Alberto, militare fascista morto prigioniero in guerra, al fratello Guido, partigiano della Brigata Osoppo, agli studenti a cui Pasolini maestro insegnò a Versutta in Friuli; ma anche i tipi umani che popolavano le periferie tanto care a Pasolini, come ad esempio Sandrone, il grosso venditore di oggetti usati dalla dubbia provenienza con un passato circense.
Già nella prima parte dello spettacolo si profila la figura complessa di Pasolini: il processo per atti osceni, l’attacco feroce alla politica borghese, la cacciata dal partito comunista di un uomo che, nonostante l’espulsione, continuava a definirsi comunista, ma che aveva smesso di credere nell’istituzionalità del movimento. Da qui, il terzo oggetto esposto al museo: l’innocenza dei comunisti.
Questo one man show si articola, dunque, sulla parola e su testimonianze video di persone che hanno conosciuto Pasolini o che, a vario titolo, parlano di lui. A dominare, è però senz’altro la voce di Celestini. L’attore è fisso nella sua posizione, seduto sulla sedia o in piedi dietro di essa, non occupa l’intero spazio del palco ma, nonostante questo, la sua presenza regge pienamente la scena. Parla veloce, Celestini, parla diretto al pubblico con la voce e l’impostazione di un professore. Ma la sua narrazione non è quella di una lezione scolastica, infatti, il racconto è spesso intervallato da dialoghi fittizi o da rapide battute ironiche e autoironiche. L’attore immagina anche di incontrare e dialogare con Pasolini stesso la mattina, quando quest’ultimo, per recarsi al lavoro come insegnante, prende l’autobus 109. Celestini si comporta, dunque, come un vero e proprio curatore museale il cui intento principale resta per tutta la prima parte dello spettacolo quello di indagare profondamente la biografia di Pasolini e il significato del suo lascito artistico.

Maria Antonia Danieli, Giulia Gambazzi  16/03/2022

Leggi qui la recensione della seconda parte dello spettacolo.

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