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Il teatro tra “Miseria e Nobiltà”, secondo Michele Sinisi

Tratto dal testo teatrale del 1888 di Edoardo Scarpetta, “Miseria e Nobiltà” è divenuto patrimonio collettivo grazie alla riproposizione cinematografica che nel 1954 diresse Marco Mattioli, con Totò protagonista nei panni di Don Felice Sciosciammocca, scrivano e maschera tipica napoletana, che conduce una vita di stenti ed espedienti. Una sfida coraggiosa, quindi, quella del “Miseria e Nobiltà” di Michele Sinisi e del Centro di produzione Elsinor, andata in scena sul palco del Teatro Abeliano di Bari il 25 e il 26 febbraio, che rimaneggia con sguardo nuovo e ingegno un mostro sacro della tradizione commediografa napoletana, esponendosi al confronto, tra le altre, con una delle produzioni teatrali più importanti di Eduardo de Filippo.
A partire dagli abiti fino a giungere all'iniziale ambientazione, Sinisi sceglie di portare il suo “Miseria e Nobiltà” ai giorni nostri. Le vicende di Don Felice e Don Pasquale, interpretati rispettivamente da Gianni D'Addario e Ciro Masella, si Miseriaenobilta02svolgono in un ambiente che ricorda lo scantinato tipico delle zone periferiche di Napoli. Ricercata e voluta è una recitazione fortemente caratterizzata, in cui è facile riconoscere personaggi tipici dell'ambiente urbano periferico e di una certa borghesia arricchita e viziata. Particolarmente apprezzabile è la forte peculiarità della recitazione dei due attori maschili principali, che, rinunciando al tentativo di riprodurre le performance degli interpreti classici, regalano due personaggi nuovi e originali. Questo conferisce carattere distintivo a una messa in scena che perde la connotazione spiccatamente meridionale, per proporre, invece, una compagine sociale italiana, con tutte le sue sfaccettature e la vasta gamma dei dialetti locali. E allora, solo per citarne alcuni, Luisella, compagna di Don Felice, interpretata da Stefania Medri, è una sarta dalla parlata veneta spiccata e Don Gioacchino, il proprietario di casa, è un uomo dell'accetto milanese, mentre la Donna Concetta di Diletta Acquaviva è una donna dal dialetto pugliese sboccato, che, quando tenta di parlare italiano, utilizza una parola per un'altra.
Ma le spie che si voglia andare ben al di là del racconto ci sono tutte. Sulla scena compare spesso il regista, che comincia sin dall'inizio a smascherare la finzione teatrale: guarda, interviene nella performance degli attori, interpreta alcuni ruoli, accende e spegne le luci, dirige il trasformarsi della scenografia coadiuvato dai macchinisti. E non mancano, in più, i riferimenti espliciti e apparentemente fuori contesto a uno dei grandi classici del principe della risata, ossia la lettera che Totò, con Peppino De Filippo, figlio illegittimo dello stesso Scarpetta, scrive in “Totò, Peppino e la malafemmina”.
Miseriaenobilta03Cade un immenso telo bianco sul palco. La casa poverissima scompare per lasciare posto alla creazione di uno spazio nuovo e indefinito. Don Pasquale e Don Felice hanno appena accettato la proposta del Marchesino Eugenio, di creare l'inganno per far credere al padre di Gemma, Gaetano Semmolone, che la nobile famiglia del Marchesino accetterà il matrimonio tra i due giovani. Una cesura netta di clima e ambientazione, che vede anche il comparire del cuoco, Michele Sinisi stesso, che getta sul telo un opulento e immenso groviglio di spaghetti, sul quale l'intera famiglia si avventa. É il momento di svolta della narrazione, in cui, grazie alle scenografie in costante mutazione di Federico Biancalani, il racconto comincia a sfumare la sua struttura narrativa, per farsi progressivamente più astratto e archetipico. Ciò che si sta guardando non è più “Miseria e Nobiltà”, ma qualcosa di più. É la narrazione dell'epopea del teatro in sé, fatto di tutte le sue povertà, ma anche delle sue immense ricchezze. Un teatro in grado di sedimentarsi nella memoria di un Paese e farsi mitologia, superando anche i limiti di se stesso attraverso il travaso nel cinema, di cui lo stesso Sinisi ricorda la forza, quando sceglie di far interpretare a Gianluca Delle Fontane due ruoli, il marchesino Eugenio e Don Bebè, suo padre camuffato, che dialogheranno tra loro, in un vorticoso gioco di apparizione e sparizione all'interno di un armadio, recante il nome di “Nobiltà”. In questa mitologia è il pubblico stesso ad essere protagonista. Esso si fa coautore dei miti che vede sulla scena, col suo portato di memorie e affezione. Ritrovando se stessa, è una platea entusiasta quella che esce dal teatro. Può quindi essere lieto il Don Felice, quello di Sinisi, ma anche quello di ogni tempo, che ritorna alla miseria della sua condizione, ma non si lamenta, perché sa che “il pubblico è contento”.

Milena Tartarelli 02/03/2017

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