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La possibilità dell’impossibile: otto punti di vista su Luca Ronconi

“Il teatro vive nella e della memoria”, osserva Gianfranco Capitta nella sua introduzione a “Luca in Accademia”, al Teatro Studio Eleonora Duse. La presenza di testimoni attivi del suo lavoro è una fonte decisiva per raccontare, ricordare e capire una personalità chiave della scena teatrale italiana dal Secondo Novecento. Proprio attraverso la loro bravura, i loro corpi, la loro voce, si è data la vita alle sue opere. Il primo a intervenire è stato, non a caso, protagonista del primo successo di Luca Ronconi, l’“Orlando Furioso”, rappresentato per la prima volta nel 1969.

Massimo Foschi non risparmia l’ammirazione verso quel lavoro: “Veramente tanti anni fa, nonostante le forze siano calate decisamente, mi sentirei di farlo ancora. [...] Avevo già lavorato con lui prima dell’”Orlando”, avevo fatto Ippolito nel “Fedra”.

Da lì la collaborazione tra i due proseguì: “Alla fine di quella stagione, era la stagione ’68-’69 al Teatro di Roma [...] decisi di andare a Londra da mia sorella per tre mesi, a imparare un po’ d’inglese. Prima di partire Luca mi chiamò e disse “Senti, se riesco a mettere insieme un po’ di soldi dovrei fare l’Orlando... te la senti di fare Orlando?” Ce la siamo sentiti tutti di partecipare perché era una cosa nuova, era qualcosa di diverso, anche se Sanguineti stava ancora lavorandoci. Era la proposta del non-teatrale, di fare teatro dentro un luogo qualsiasi, che poi è diventato un palazzo dello sport, una piazza, qualsiasi altro posto. La compagnia al completo compresi i tecnici, comprendeva 63 persone. Come si può fare una compagnia di 63 persone oggi? [...] Fu un happening molto interessante. Oltre all’”Orlando Furioso”, Foschi ha lavorato con il regista per molti anni, in particolare ricorda l’”Orestea”: “La cosa bella sua era quella di chiedere “l’impossibile” [...] Luca mi diceva: “Agamennone, cinquemila anni fa, prima della Guerra di Troia, è stato una figura divina, un’ideologia. Sono passati cinquemila anni: la figura è diventata umana, e morirà, tra poco scomparirà. La presunzione di Agamennone è questa: torna vincitore e pensa di essere ancora quel dio, quella rappresentazione ideologica e divina di cinquemila anni fa. Ti chini, baci la tua terra, ti rialzi, quando sei in piedi sono passati cinquemila anni indietro. Ok? - Ok Luca, come faccio? E lui, tirandosi la barba, disse: “Sono cazzi tuoi”. Però aveva ragione, perché accade. Ci si pensa. [...] Ecco la necessità di tempo che richiede il teatro”. Ronconi, per Foschi, è colui che ha provato che “l’impossibile è realizzabile”.

Antonello Fassari racconta la sua esperienza in “Una partita a scacchi”: “era il nostro saggio d’Accademia, era il II e III anno, stavo con Mauro Avogadro, con Remo Girone [...] io mi sentivo sempre inadeguato, perché chiedeva sempre l’impossibile ma si rivolgeva anche a te, personalmente. Eri tu che dovevi cercare di oltrepassare dei limiti [...] Luca mi ha sempre visto un po’ come comico, come in questo caso, il Vescovo Nero, un personaggio più divertente nonostante tutta la costruzione dello spettacolo. Tra l’altro Luca era una persona spiritosissima, ironica [...]Filippo1
Il ricordo più forte e il grande talento del regista si rispecchia in una formazione attoriale che ora si fatica ad incontrare: “L’impronta riguarda come lui ci ha insegnato a leggere i testi, nel senso che, qualsiasi testo arriva, penso di saperlo leggere in un certo modo. [...] Spesso vado a Romaeuropa Festival, a vedere quello che succede in giro[...] Quello che noi avevamo studiato in quel periodo era pieno di fermenti [...] Gli spettacoli che vedo ora li trovo carenti, soprattutto dal punto di vista intellettuale. Non è la messa in scena che manca ma il pensiero”.

Ida Bassignano ci regala, invece, il suo sguardo da assistente-regista che l’ha affiancato durante “Utopia”, tra il ’74 e il ’75. Spettacolo la cui realizzazione richiama il nome stesso, per cui non mancano gli aneddoti:
In scena c’erano diversi elementi. Un aereo, una corriera con motore elettrico, cinque macchine con motore elettrico, un’altra macchina col motore a scoppio, un camion. Era uno spettacolo che si svolgeva su una strada, questa era l’idea. La strada non c’era ma è stata ricreata. 60 metri di lunghezza per 9 metri. Di fianco c’era il pubblico e lo spettacolo scorreva, come una manifestazione, come un corteo, era il ’75. C’era un riferimento preciso che la maggior parte dei critici non mi sembra abbia colto. [...] Utopia può essere intesa come “non luogo” o “luogo del bene”, non si sa qual è. Aristofane è un reazionario perché è un cittadino che viene deluso da quello che è successo ad Atene. Criticava il non adempimento delle Utopie e questo era seguito perfettamente da Ronconi, ma con delle varianti. [...] Una cosa importantissima era la produzione. La produzione era “Festival di Edimburgo”, “Festival di Berlino”, la Biennale metteva solo per il locale, ci sono state tante repliche...Tra i produttori dello spettacolo c’era il Partito Comunista Italiano, che. per la prima volta, aveva prodotto uno spettacolo per un motivo concreto, perché doveva debuttare ai Festival dell’Unità [...] Questo è stato il suo ultimo “spettacolo en plein air”.
Ida Bassignano conclude leggendo una più recente dichiarazione del regista, conscio del cambiamento in seno alla messa in scena teatrale:
“Per chi, come me, ha pensato alla mobilità del pubblico e alla frantumazione dell’azione, come un fatto liberatorio, può risultare abbastanza umiliante che i procedimenti oggi possono essere associati ai meccanismi dello zapping”.

Massimo de Francovich ricorda Ronconi nel primo spettacolo per cui vi ha lavorato, “Uno Strano Interludio”: “6 ore e un quarto. Io conoscevo Luca, è uscito due o tre anni prima di me dall’Accademia. Per molti un attore eccezionale [...] Poi finalmente ero reduce da uno spettacolo che non mi ha dato molte soddisfazioni [...] Quindi uscii un po’ malconcio da quella cosa, scrissi un bigliettino a Luca “Luca avrei bisogno di lavorare con te”. E lui mi chiamò e fu il mio primo spettacolo con Luca nell’89, “Uno Strano Interludio” a Torino, era l’inaugurazione, la prima volta che Luca lavorava col Teatro Stabile. “Strano Interludio” è una specie di grande soap opera. L’invenzione di O’Neill è che ci sono le battute dei personaggi e dopo c’è il pensiero. IMG 5331La battuta dice “ti amo ti adoro vorrei vivere con te per tutta la vita” e poi il pensiero dice “ti disprezzo”. Quando lo fecero negli anni ’40, gli attori dicevano una battuta, poi suonava il campanellino e arrivava il pensiero. Era un po’ macchinoso. La trovata di Luca fu quella di recitare i pensieri ancora più violentemente delle battute. Non si capiva più qual era la battuta detta dal copione dell’attore e quello che il personaggio pensava: venne fuori uno spettacolo abbastanza esplosivo, una storia di disperati... e poi ci fece mettere le maschere di lattice, una vera tortura, perché la storia si svolgeva dai 25-30 anni di un personaggio fino ai suoi 70 [...] Un giorno, io mi ricordo che iniziavo con un monologo da solo, facevo lo zio Charlie, c’era una biblioteca di libri non suoi, entrava in casa del padre...e Luca disse, come prima indicazione: “Fai come...hai presente Enzo Siciliano quando entra in casa tua e va a vedere se c’è un suo libro?”
Era vero, Enzo lo faceva, era contento perché io avevo i libri di Enzo...ma come indicazione era molto carina. [...] De Francovich non nasconde una certa difficoltà di dialogo con Ronconi e un’inclinazione “lapidaria” nella comunicazione: alla Conferenza Stampa dello spettacolo una giornalista chiese: “Scusi Ronconi, lei ha speso sei miliardi per lo spettacolo di lire. Ma se va male che fa?” “Me ne torno a casa”.

Il regista ha lavorato con figure femminili che sono diventate “di riferimento” per tutta la sua opera. Quattro tra loro portano una testimonianza profonda dell’esperienza attoriale e umana.

Anna Bonaiuto racconta della sua storia con Ronconi, dai primi lavori ai trent’anni di distacco, per poi ritrovarsi a lavorare insieme:
“Il primo ricordo che ho di lui è di quando ho fatto il provino in Accademia, portavo una scena da “Le mosche” di Sartre, nella parte di Elettra in cui Oreste dice: “ma tu sei bella, non sembri le donne di qui”, io ero distesa su una panca e ad un tratto sento una fragorosa risata ed era quella di Luca Ronconi. Ovviamente quella risata mi uccise e il verdetto del provino fu “ammessa, attrice comica”. [...] Poi lavorai nuovamente con Ronconi nella sua “Orestea” [...] Ronconi davanti a questa materia di partenza, ci disse:” noi siamo lontanissimi da quel tempo, dunque non possiamo pronunciare queste parole come se ci appartenessero.”
A Zurigo portammo “Caterina di Heilbronn”, che fu forse lo spettacolo più folle di Luca. Ricordo che dovevamo recitare di notte sull’acqua, il pubblico era sui balconi e dai lati dovevano arrivare delle zattere trainanti con sopra dei cavalli e attori a loro volta sopra i cavalli. Ovviamente tutto ciò implicava grandi difficoltà tecniche, quindi si decise di far recitare una parte del cast a terra sulla riva e l’altra sulle barchette.
Dopo questo spettacolo, Ronconi mi chiese di recitare in “Utopia”, io rifiutai perché volevo prendere una pausa. A dir la verità, non so perché dissi di no, a volte accade che certi attori si sentano inadeguati, lui chiedeva l’impossibile, era facile pensare di non poter riuscire. Anni dopo glielo confessai e lui mi disse: “perché, pensi che io mi sentissi adeguato a fare l’Orestea? Vedi, è vero che i registi scelgono gli attori, ma è altrettanto vero che gli attori scelgono i registi”.
Dopo trent’anni di ‘lontananza’ dai lavori ronconiani, ho recitato in uno dei suoi ultimi spettacoli, “Il marchese”, una commedia spiritosa ambientata in un albergo di lusso con protagonisti come banchieri, donne avventuriere, ecc...Nelle mani di Ronconi, la commedia era diventata più astratta, non una semplice comicità mondana, ma un’opera in cui si celava una visione più sottile e agghiacciante della società. Anche lì ero terrorizzata, ma ne venne fuori una commedia di grande raffinatezza”.

Paola Mannoni, invece, ha preso parte a due spettacoli di Luca Ronconi. Parlando di “Dialoghi delle carmelitane”, una storia totalmente al femminile:
“Sì, eravamo quattordici attrici e quattro attori. Lui era capace di entrare profondamente nel femminile, aveva una particolare sensibilità. Eravamo davvero tante sul palco: posso assicurarti che faceva piangere tutte (una volta si mise a piangere anche la suggeritrice). La sua opera era un mix di angoscia e felicità. Lo spettacolo durava cinque ore e un quarto, io avevo delle lunghe pause tra un intervento e l’altro e mi stupiva vedere quanti spettatori restassero in sala per tutto il tempo, rapiti da ciò che vedevano”.
Indubbiamente un’opera spiazzante per il 1988-89: “Era una tragedia chiaramente spirituale con una visione sociopolitica impegnata, un’opera eccezionale”

Galatea Ranzi è stata una sorta di “icona” per il regista:
“Con Ronconi fu un colpo di fulmine. Un po’ mi fa impressione stare qui dentro, l’ho frequentato questo teatrino ed è cambiato tanto. Sono due anni che Luca non c’è più, ma noi siamo ancora qui insieme a lui.
Ci parla di “Gli ultimi giorni dell’umanità” e “Mistero doloroso”: “è vero che Luca ti chiedeva l’impossibile, ma era impossibile non avere una fascinazione nei suoi confronti. Credo che i suoi spettacoli fossero delle magie, c’era qualcosa di magico che è difficile trovare artisticamente e l’emozione di fronte a una magia è irripetibile. Lavorare con lui certamente provocava un po’ di timore referenziale e di ansia, era solito pretendere dagli attori cose che non ti aspetteresti, ti portava in zone sconosciute di te stesso e ti metteva alla prova sia psicologica che fisica.
Dopo le prime repliche di “Gli ultimi giorni dell’umanità”, ci sembrava di aver fatto un corso intensivo di recitazione, lavoravamo sulla coordinazione dei movimenti e delle battute per tutto il giorno, anche perché tutti interpretavamo più ruoli. Eravamo in tantissimi tra tecnici e artisti, credo che fu la prima volta che entrò il computer in teatro. Fu uno spettacolo innovativo da tutti i punti di vista, che richiedeva una capacità di incastro e permetteva di essere pubblico e attori allo stesso tempo.
Poi ho recitato in tanti altri spettacoli con lui, dopodiché c’è stato un intervallo di dieci anni, al termine del quale mi propose un nuovo testo teatrale basato su un racconto, lo lessi e accettai. Dopo un solo un mese di prove, andai in scena. Era uno spettacolo impegnativo di cui ho un bellissimo ricordo. Luca aveva la capacità di farti stare dentro lo spettacolo”

Lucrezia Guidone rappresenta, invece, la generazione attoriale più giovane ad aver studiato e lavorato con Ronconi. Conscia ed entusiasta di questo impegnativo incontro professionale, ricorda il ruolo della figliastra nello spettacolo tratto da Pirandello:De1
“Indubbiamente “In cerca d’autore. Studio sui sei personaggi di Luigi Pirandello” è lo spettacolo più bello che abbia mai fatto. Appena diplomati in Accademia, in collaborazione con il centro teatrale “Santa Cristina” e il “Piccolo” di Milano, iniziammo questo laboratorio, che dopo tre anni ci portò in scena. È stata un’esperienza preziosa, abbiamo vissuto Ronconi in un modo particolare, perché lavorare a Santa Cristina comporta una sorta di isolamento dalla società, quindi tutti ci siamo completamente immersi nello spettacolo. Il primo anno di lavoro fu scioccante per me, perché tutte le mie convinzioni sulla recitazione in generale furono ribaltate, da come si respira, a come si interpreta, ecc....Ricordo che mi chiese: “perché metti questo personaggio su di te?”
Piano piano dunque, sono entrata in un mondo sconosciuto, fatto di raggiungimenti e cose sempre più lontane. I personaggi erano fortemente surreali, quasi astratti, Ronconi voleva staccarsi dalla tradizionale, quindi ciò richiedeva un totale cambiamento vocale, fisico ed emotivo. Da quest’esperienza ho imparato una cosa importante: più ti allontani da qualcosa che sembra ti appartenga, più impari da te stesso”.

Agnese Comelli e Sara Risini 04/04/17

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