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"La leggenda del Pescatore che non sapeva nuotare": un tuffo nella nostra memoria collettiva

L’Italia è il paese con il maggior numero di dialetti, tradizioni e culture popolari al mondo: si tratta di una ricchezza preziosa quanto effimera, che rischia di estinguersi con i nostri nonni, ultimi eredi di unapescatori storia sempre più remota. Sorge così la domanda: questo patrimonio è davvero un relitto del passato o è ancora vivo, da studiare e valorizzare? «E se è vero che non sai dove vai se non sai da dove vieni, oggi: qual è la nostra casa? Qual è la nostra Itaca?». Sono queste le domande alla base de "La leggenda del Pescatore che non sapeva nuotare", diretta da Alessandra Fallucchi, in scena fino al 9 aprile al Teatro Studio Uno. La pièce, scritta da Agnese Fallongo e rappresentata dalla compagnia Il Carro dell’Orsa, nasce da una raccolta di interviste fatta dall’autrice a persone del Centro-Sud Italia, appartenenti alla generazione della prima metà del Novecento. Da quelle testimonianze sono nate tre storie, ambientate negli anni della Seconda guerra mondiale, nel mondo dei nostri nonni, degli antichi mestieri manuali, quando vi era ancora un rapporto viscerale fra gli uomini e la loro terra, il loro mare.  

I protagonisti, Arturo, Mamozio, Maria e Reginella, sono persone semplici, provenienti dal popolo: un pizzaiolo romano della Garbatella anni Quaranta con le velleità di cantante; un pescatore calabrese che non sa nuotare; una ragazza madre abbandonata da un soldato americano che sogna di ballare lo swing in una Sicilia moralista e devastata dalla guerra; una signora napoletana che, anni dopo una cocente delusione d’amore, ritrova la forza di aprire il suo cuore. I ricordi veri di vita vissuta, di amore, di povertà, di sofferenza e riscatto, si uniscono alle leggende popolari tramandate oralmente e che meritano di non essere perdute: realtà e fantasia si fondono senza distinzione, perché è di questo che è fatta la nostra grande memoria collettiva. 

I quattro attori in scena, Domenico Macri, Eleonora De Luca, Teo Guarini e Agnese Fallongo, passano con agilità e maestria fra i diversi ruoli delle tre storie, cambiando movenze e dialetti senza mai perdere credibilità. Sul palco la scena riproduce un rustico salotto popolare, fra seggiole di legno e vimini e alcuni strumenti musicali tradizionali. La recitazione si alterna con l’esecuzione dal vivo dei canti popolari e degli antichi stornelli intonati fra qualche accordo di chitarra e accompagnati da energici balli - parentesi di ristoro e divertimento in una vita dedita al lavoro. È proprio la musica che fa da fil rouge fra un racconto e l’altro, assumendo una funzione poetica e dando voce a quelle emozioni, ai quei ricordi più intensi, che spesso non riusciamo a esprimere solo a parole. La riproposizione delle antiche serenate e delle strofe popolari ci fa inoltre comprendere (ed è questo il potere della musica), che ciò che è passato non è irrecuperabile, ma si può rivivere e riassaporare. Il fine dello spettacolo, vincitore del concorso "Cortinscena" nella IX Rassegna Teatrale Exit, forse è proprio questo: ci si diverte e si ride, ma si avverte anche una sorta di profonda nostalgia verso qualcosa che ci appartiene ma che forse, se non lo impediamo, è destinata a scomparire per sempre. Nelle commoventi storie dei nostri avi riconosciamo le nostre medesime speranze, le passioni, le delusioni e le gioie più sfrenate che viviamo quotidianamente; in esse ci accorgiamo di ritrovare non solo noi stessi e i nostri sentimenti, ma anche le nostre radici, le nostre origini, la terra da dove siamo venuti e dove è importante ritornare, almeno ogni tanto. Insomma, la nostra Itaca. 

«Per lavoro e per diletto, mi capitava spesso di girare per paesini italiani quasi sconosciuti; - racconta Agnese Fallongo, che ha realizzato lo spettacolo anche grazie al crowdfunding - durante questi viaggi mi accadeva di conoscere persone molto semplici ma con storie incredibili, leggende da manuale, insomma, vite da raccontare. Un giorno ho quindi deciso di cominciare a documentare il tutto con un semplice registratore, niente video, solo voci dal sapore antico, come fossero dei cantastorie. Nel giro di un anno ho raccolto moltissimo materiale: si tratta per lo più di gente anziana, che svolge “mestieri in via di estinzione” come pescatori, contadini, artigiani oppure semplicemente persone incontrate sul lungomare, nella taverna del paese, nel bar della piazza». Non si tratta della Storia dei manuali scolastici, ma delle microstorie della gente comune che, come le onde marine sulle rocce, ha dato forma a ciò che siamo oggi e al mondo in cui stiamo vivendo. E se è vero che il presente è sempre più privo di punti di riferimento, la preservazione del passato è diventata una scialuppa di salvataggio fondamentale per non perdere la nostra identità. 

Michele Alinovi 03/04/2017

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