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Folli per difetto: Emanuela Grimalda e le sue donne

«”Diventa padrone di te stesso” sono le prime parole che Seneca rivolge a Lucilio. Regalandomi questa matassa di giorni, anch’io ho iniziato il mio percorso di saggezza. Ho sempre fatto. Lavorato. Prodotto. Realizzato. Ora devo solo vivere e aspettare. Con il rischio che non succeda nulla» (Eleonora Mazzoni, “Le Difettose”, 2012, Einaudi)
Emanuela Grimalda è Carla Petri, protagonista dello spettacolo liberamente tratto dall’omonimo libro “Le Difettose” di Eleonora Mazzoni, ma è anche tutte le altre donne dai trenta ai quarant’anni, un “eccentrico gineceo” che si è reso conto, “nel mezzo del cammin di loro vita”, di sentire un vuoto a cui né una carriera né le relazioni sentimentali né la cultura, i viaggi e gli acquisti possono far fronte. La Casa Internazionale delle Donne a Trastevere, in Roma, con l’impianto registico di Serena Sinigaglia, diventa allora quel teatro perfetto per ospitare l’ironia tragica di un fenomeno che, statistiche alla mano, non smette di crescere. A invecchiare è la popolazione, dice l’Istat, esibendo dati che mostrano nel 2016 un livello minimo delle nascite per l’Italia inferiore persino alla triste riduzione dell’anno precedente. Un fatto che unifica la penisola, da nord a sud, e vede in aumento l’età delle donne che ha figli tra i 35 e i 39, mentre la fascia 25-29 è quella che registra il calo più accentuato. DIFETTOSE 75
La speranza di vita si allunga, ma, come ben recita Emanuela Grimalda: «la donna è programmata ancora oggi per raggiungere il picco della fertilità tra i quattordici e i vent’anni. Poi inizia il declino. Lento, inesorabile. La natura non si adegua ai modi di vivere che cambiano. Non esistono lifting alle ovaie».

Il palco è spoglio, salvo una sedia al centro e due flebo ai lati, che richiamano le infinite traversie ospedaliere che la fecondazione assistita prevede, un vero salto nel vuoto a ogni tentativo, senza nessuna garanzia di riuscita. L’attrice è tutte le figure femminili che prendono parte al travaglio spasmodico nella ricerca della gravidanza a tutti i costi: la nonna, la madre svampita che “con quattro figli aveva troppo da fare”, le trepidanti pazienti, l’infermiera in ruolo da vent’anni che odia ormai tutto e tutti: “Io voglio la pensione. Quando ce la daranno la pensione a noi? Dopo morti!” e la fredda analitica dottoressa, sempre pronta a sottolineare che la buona riuscita dell’operazione ha una percentuale bassissima: “solo il 10%”.
Che stronza!” – esclama Carla, ripensandoci.

PMA” sta per “Procreazione Medicalmente Assistita”, ma per l’infermiera non vuol dire altro che “Pazze Madri Aspiranti”. Emanuela Grimalda affronta una tematica spinosa e delicata con poliedricità e un senso dello humor trascinante, ridicolizzando alcune più o meno piccole nevrosi della donna contemporanea, quella che ha studiato tanto, ha combattuto più dei colleghi uomini per arrivare da qualche parte per poi ritrovarsi, infine, forte, indipendente, quasi invincibile e sola.
Una solitudine biologica data dall’aver represso l’istinto naturale alla riproduzione, non concedendosi il diventare madre appena si sia vissuto abbastanza per trasmettere, più o meno goffamente, ciò che si sa a una nuova creatura.
Anche compagni e mariti assecondano, reiteratamente, la “follia” delle aspiranti, con una dose di stress più alta: mentre le donne si fanno prendere da una cieca impossibilità alla rassegnazione, gli uomini si prestano per la semplicità nel voler vedere il sorriso sul volto dell’amata, un amore sincero che li porta a sacrificare momenti intimi alla mercé di squallide sale d’ospedale.
grimalda fbEssendo al tempo stesso donna, madre, moglie e figlia, l’attrice ha ben studiato sé stessa e anche le diverse tipologie umane della sfera femminile. Cambia tono di voce e impostazione e, senza perdere un briciolo di credibilità, permette il dialogo della “stronza” con l’ostinata, la madre indaffarata e sbadata con la nonna prescrittiva, quella presa da pratiche New Age e palestra con quella che ha fin troppo i piedi per terra, avversa all’umanità dopo una vita di troppo lavoro e pochissime gioie. 
Un pubblico in prevalenza femminile ride all’unisono, travolto dalla propria immagine riflessa sul palco. Senza estremismi, una porzione di mondo reale si anima sotto i riflettori con la giusta dose di lucidità, quella che non perde di vista la relatività dei fatti e la natura imperfetta, cagionevole, in balia di mille pensieri e sentimenti proprie della sensibilità delle donne. Una complicata dolcezza che le sospinge, a volte, verso problemi e guai da risolvere, affrontare, combattere come folli guerriere, pazienti combattive, eroine buffe. Al termine dello spettacolo, resta solo da chiedersi se l’accanimento contro le sorti della natura sia poi così sano. A essere sicuramente sane, invece, sono state le risate e le lacrime che questo teatro non ci ha risparmiato.

Agnese Comelli 09/03/2017

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