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“La Cerimonia” seppellisce il rito del teatro

PRATO – Chi osa vede sempre un po' più lontano di chi rimane sul ciglio, sul bordo, sul limite. Ma si può anche lanciare troppo lontano il sasso senza saper più dov'è andato, senza aver più la possibilità di raccoglierlo e recuperarlo. In questo bivio, in questa scissione, in questa dicotomia possiamo inserire il nuovo lavoro di Oscar De Summa, coraggioso nel tentare con slancio il salto ma che forse non ha ben calibrato il tiro, il balzo. Negli ultimi anni ci ha abituato a lavori corali solidi, “Amleto a pranzo e a cena”, come a solitudini monologanti intense e partecipate, “Diario di provincia” o “Stasera sono in vena”. Dicevamo, osare. Ci vuole ardimento nel creare un amalgama così illuminante e nebulosa allo stesso tempo, di alte vette come di gorghi, intellettuali e drammaturgici, dove è facile finir preda dei vortici.summa1
Nell'impianto de “La cerimonia” (prima parte di una trilogia targata produzione Teatro Metastasio) c'è un qualcosa di sottofondo che sa di primi anni '90, di un “Trainspotting” malcelato, di un'ambientazione tanto borghese quanto marcia fino al midollo, una pentola a pressione thrilling che lentamente la miccia accesa sta portando al bang conclusivo; una scrivania, sembra da lettura a tavolino che si fa nelle prove teatrali, quattro figure i cui contorni neri fanno buio in una scena da Ultima Cena in formato ridotto. Due figure maschili e altrettante femminili dove la “madre” (spicca Vanessa Korn nella sua risolutezza) e la “figlia” (Marina Occhionero determinata, di grande sostanza e tempra) ne escono meglio a livello attoriale rispetto al “padre” (Marco Manfredi preciso ma distante dalla parte che recita), e a quella dello “zio”, lo stesso De Summa (lo abbiamo visto in altre occasioni con tutt'altro spirito, qui molto manierato) che si ritaglia il ruolo fastidioso di guru simpatico, di santone confidenziale, di esperto spirituale che vuole insegnare il cammino senza indicarlo, che ha la verità in tasca ma con il sorriso d'ordinanza, che non si fa tangere dalle piccolezze umane, che dispensa summa2consigli e certezze.
C'è una figlia che sta crescendo (Occhionero pur giovane ha grande carattere) ma che, in una scrittura molto, troppo letteraria che non ci riporta la verità del parlato quotidiano, ha una consapevolezza, un'adultità spocchiosa, una serietà saputella, un controllo di sé e del mondo circostante, un'assennatezza, una coscienziosità, una maturità eccessiva e stridente, che è alquanto improbabile, se non impossibile, riscontrare e ritrovare nei ragazzi minorenni (la protagonista dovrebbe avere nel testo diciassette anni). I dialoghi inverosimili ci allontanano dalla vicenda che è di per sé molto realistica e concreta. L'adolescenza porta in dono fraintendimenti e traumi, strascichi e ferite, contrasti e lacrime, dolori soprattutto: si chiama crescita, stravolgimento di psiche e corpo. Certo che la tesi proposta dall'autore/attore pugliese, cresciuto professionalmente a Bologna, non ci sembra tra le migliori possibili. Ci arriveremo, senza svelarvi il finale, in un tragitto che si sgonfia, come palloncino d'elio senza fiocco, correndo tra una coreografia da boy band, zigzagando tra citazioni zen e slalomeggiando tra riflessioni buddiste, lampi di poesia sbattuti a tentare di rovistare nel petto della platea che, tra i decibel altissimi delle urla del recitato, prova una comprensione, cerca barlumi nella nebbia.
Due genitori-cani rabbiosi che si abbaiano addosso ogni accusa, ogni recriminazione, ogni peccato, una figlia (si dice che sia anoressica, anche se il dettaglio, che dovrebbesumma3 essere fondamentale, viene lanciato nell'agone, nello zibaldone dell'arena quasi per caso) che cresce, pare bene anche se i fatti dimostrano l'opposto, nonostante le loro trascuratezze e indifferenze. La musica è quella di fine millennio, arrabbiata da denti in mostra e distruzione, dagli Skunk Anansie ai Red Hot Chili Peppers, dove l'amore se c'è è sempre lancinante e frustrato, dai Radiohead a Manu Chao, dove i morsi si confondono con gli abbracci. Un testo generazionale, irruento, disfattista, contro il sistema, contro tutto e tutti, contro gli adulti e contro i genitori, contro i maestri e i professori. Fuori tempo massimo, però.
Parole che non funzionano, che non scorrono, che si appiccicano, che fanno un grande sforzo a sgorgare dalle bocche degli attori e ad arrivare al pubblico, si incastrano, arrancano come un ciclista in salita, sembrano incollarsi faticosamente, paiono pesanti. Tanta prosa poetica infarcita che addensa e incastra, allappa le orecchie come addentare una banana acerba, per poi risolversi e sciogliere il nodo in un mix noir tra Agatha Christie e Master Chef (va molto di moda) con sullo sfondo “La grande abbuffata” e il Millennium Bug (ve lo ricordate? Sembra di rievocare i dinosauri a livello tecnologico; tanto rumore per nulla poi, visto che il famigerato errore delle macchine è stata una delle tante paure preventive-bufale infondate dell'uomo contemporaneo). In tutto questo tanto eccessivo messo sul piatto dal sapore esagerato si sente che manca qualcosa, in questo ammasso di materia (non ci siamo fatti mancare nemmeno la pistola e l'omosessualità) ci si alza insoddisfatti e confusi. Rumore di unghie sulla lavagna. Less is more.

Tommaso Chimenti 04/04/2017

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