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Kilowatt '21 fa luce sulle varie declinazioni di perdita della memoria

SANSEPOLCRO – C'è una linea, neanche poi così sottile, che da Piero della Francesca, passando per aziende di fama globale del territorio come Buitoni e Aboca, arriva fino a Kilowatt. Sansepolcro, che tutela le proprie radici, non si è fossilizzata soltanto su quelle. L'aspetto green va di pari passo con il teatro, anzi con l'idea di fruizione dell'arte, slow, intelligente, piccola, leggera, maneggevole. A partire dalla location principale di quest'anno, i Giardini di Piero, dove si svolgevano la maggior parte delle attività e che ben presto sono diventati agorà per ritrovarsi, parlare sotto tendoni, scrutarsi occhi negli occhi dopo i tanti mesi dove guardavamo soltanto i congiunti e le quattro mura attorno a noi. Sansepolcro, anche grazie a questi quasi venti anni del festival ideato da Lucia Franchi e Luca Ricci, sta cambiando, si sta evolvendo e, cosa non da poco viste altre esperienze di segno opposto in Italia, la rassegna è integrata con la cittadina, i suoi abitanti la vivono, la respirano, la aspettano, proprio partendo dalla grande intuizione dei “Visionari”, persone del luogo, non addetti ai lavori, che scelgono una parte del programma (nove spettacoli, non pochi) selezionando i vari spettacoli su video, analizzandone centinaia l'anno. Il concetto di festa, che è la radice di “festival”, è rispettato a pieno, con tanti luoghi della città impegnati e un sentimento positivo condiviso che, nelle dieci giornate di arte, danza, teatro e performance, si stia facendo qualcosa di positivo e propositivo, mai fine a se stesso, che guarda al futuro, che rivitalizza e ringiovanisce, che fortifica e guizza come elettricità. Lo vedi dai volti dei ragazzi felici, frizzanti che si agitano attorno.Eclissi3 phLucaDelPia

A guardarla bene la locandina di questa edizione (grande attenzione da sempre anche alla grafica, in questo li assimilo a “Primavera dei Teatri” di Castrovillari) ad una prima occhiata appare una nota di pessimismo: un aereo distrutto che evidentemente ha fatto un atterraggio di fortuna. Il velivolo è distrutto e inutilizzabile (il nostro oggi, la nostra “normalità” pre-Pandemia) ma da dentro proviene una grande luce abbagliante (il futuro, la speranza) e sopra due ragazzi (i soli sopravvissuti?) si abbracciano in tutto quel deserto intorno. E' iconica, mette i brividi e rasserena contemporaneamente. Ma anche il titolo di questo diciannovesimo anno è un ossimoro che fa riflettere: “Questa fervida pazienza”, con l'aggettivo che sa di brulicante e il sostantivo di acquietarsi, attendere, una continua tensione emotiva verso un qualcosa ma con la catena al collo, il morso frenato, come a raccontare, con tre parole, i nostri mesi appena trascorsi come leoni in gabbia agognando che tutto riaprisse per riprendersi il mondo e il tempo perduto. A Kilowatt (da quest'anno hanno anche una bella foresteria in pietra per ospiti e attori e volontari) si ha sempre la netta sensazione che qualcosa sia in atto, che stia cambiando davanti ai nostri occhi, che qualcosa sotto ai tuoi piedi stia alacremente diventando altro, bruchi e farfalle. Anche scorrendo il cartellone non si ha mai l'impressione che sia soltanto un riempitivo (come accade altrove) di pagine, nomi, titoli alla rinfusa. Scelte coerenti, rigore, attenzione, cura. Il fil rouge che abbiamo individuato nelle piece alle quali abbiamo assistito ci parla di mancanza, di nostalgia, di un passato perduto, rievocato, illusorio. Un sentimento di vuoto da riempire con nuovi contenuti, un punto zero sul quale appoggiarsi per darsi nuovo slancio, una tabula rasa sulla quale scrivere un nuovo domani. Se lo scorso anno il padrino della manifestazione era stato Roberto Latini, in questa edizione (16-24 luglio) sono stati il duo messinese Scimone e Sframeli con un laboratorio e conseguente restituzione (“Bella Festa”) e uno dei loro spettacoli cult più felici, “Cortile”.

Enchiridion2 phLucaDelPiaSu questa falsa riga “Eclissi” (di Alessandro Sesti) ha aperto le danze attraverso una performance sensoriale che è inseguimento prima fino all'identificazione con quello al quale stavamo correndo dietro. Con grandi cuffie ci aggiriamo (praticamente è un uno contro uno, alla fine uno specchio) per le vie della città controllando un uomo strano che ha degli oggetti in mano che vengono evocati in audio. Si parla di memoria scivolata nell'oblio, di perdita dei punti di riferimento, soprattutto temporali, di anni che si fanno liquidi offuscandone i contorni, gli eventi, appiattendo dolori e gioie in un nulla quotidiano che non riesce ad impigliarsi nelle maglie del pensiero. Sentendoti un alieno, con un intorno sempre uguale a se stesso ma sempre sconosciuto, con le facce vicine ogni giorno da riconquistare e con le quali rimanere straniero perché non si riescono più a decodificare gli oggetti e a chiamarli con la loro definizione per comunicare all'esterno le nostre esigenze, vaghiamo tra viuzze di pietra quasi fossimo un parente stretto del malato controllando che non si faccia male, che non si perda irrimediabilmente. Gli oggetti evocati dalla narrazione in cuffia si materializzano nelle tue mani (portati da volontari) e pian piano non guardi più le spalle di sconosciuto vestito in modo strambo ma lentamente, durante il cammino (della vita) ti sei trasformato proprio in quella perdita. Il suo cappello adesso è il tuo cappello, le sue banane ora le hai in mano tu in un transfert lento come goccia cinese. Entrare nel finale in un portone buio di un palazzo sa di morte e di nuova nascita, fine ed essere nuovamente partoriti. “Eclissi” tocca corde che vogliamo tenere nascoste, tutti abbiamo paura e terrore dell'alzheimer perché ti annienta, non ci sono rimedi, ti svuota di senso, e che cos'è un uomo senza la sua storia? Solo carne che cammina in attesa di essere messa orizzontale: toccante, vibrante, senza sconti, giustamente non accogliente, brutale, sentimentale.

Se in “Eclissi” era la memoria che ci abbandonava, in “Shakespeare showdown”, a cura del collettivo Enchiridion, sotto tutt'altra veste, abbiamo provato una sensazione simile, nei panni di Romeo o Giulietta e addentrandoci dentro gironi danteschi alla ricerca sia dell'amato che delle sue parole, del suo ricordo, del suo amore. Particolarità dell'operazione il tutto si svolge dentro un videogioco, un videogame anni '80 (contenitore in stile Pac-Man o Mario Bros per intenderci) con la cloche per correre e il tasto per saltare. Scovando nuovi mondi, tra le stelle, tra le fiamme o sotto il mare e confrontandoci con oracoli e apparizioni, i nostri due amanti alla fine si ritroveranno. Curiosa l'idea per nostalgici degli anni del disimpegno con i pixel sgranati dei primi tentativi di game virtuali però, ci siamo chiesti, perché per ricreare personaggi da videogioco sono stati necessari attori in carne ed ossa e successivamente pixelarli? Sembra una contraddizione (insieme alla poca interattività: le vite sono infinite e tutti arrivano allo schema conclusivo): sullo schermo, appositamente “truccati” e opacizzati, si materializzano Alice Giroldini, Tindaro Granata, Iaia Forte, Manuela Mandracchia, Marco Maccieri, Mauro Parrinello, Antonella Questa, Celeste Gugliandolo, Matteo Sintucci, mentre i nostri Romeo e Giulietta sono omini dalla grafica incerta creando uno squilibrio visivo che rievoca soltanto le atmosfere di Commodore 64 e similari. Un buon tentativo da migliorare per essere ancora più accattivante con scelte multiple di percorso, altrimenti rischia di appiattirsi.

Ancora memoria caduta nell'oblio, con il teatro che catarticamente serve proprio a riesumare, appigliandosi ai ricordi, vita trascorsa insieme e sottratta al futuro. “Arturo” prende le mosse dall'Isola omonima diIlCortile phLucaDelPia Elsa Morante. Figli, ma soprattutto padri. E i due attori in scena, ancora con limiti e acerbi, Laura Nardinocci e Niccolò Matcovich, portano, come in una seduta spiritica, i loro due padri (deceduti) a confrontarsi con loro stessi, tra di loro e con il pubblico. Alcuni passaggi di queste autobiografie messe a nudo sono strazianti ma l'interattività, oltre che essere limitata perché guidata (finta improvvisazione) risulta anche essere inutile (come il quiz) visto il contesto personale e l'ambito familiare (quindi non fiction) nel quale la platea si trova ad imbattersi. Interessante la grande lavagna sul fondo che raccoglie i vari pezzi sparsi e si compone ma tutto è talmente vero e realistico e naturalistico che ancora non si coglie il giusto distacco per rendere questo lavoro davvero “teatrale” diventando un pezzo non sulla mancanza ma sulla loro specifica mancanza dei propri padri risultando troppo personale e chiuso invece che aperto e universale. Praticamente le cose che non ti ho mai detto. Le voci degli amici registrate poi toccano in profondità e scuotono ma sembra davvero una questione privata e non si riesce fino in fondo ad entrare in questa vicenda così intima e riservata tanto da chiedersi se sia stato giusto portare i fatti all'ascolto di un pubblico estraneo (che provava pudore e imbarazzo per essere lì voyeuristico; ci ha ricordato “Sala Party” di Giustina Testa che rievocava il dolore atroce e lo scempio dell'aborto subito), “spettacolarizzando” gli accadimenti tragici.

Non abbiate paura - Grand Hotel Albania _ ph@Luca Del Pia.jpgMemoria collettiva di una Nazione ma ancor di più di una città: Brindisi. Luigi D'Elia e Francesco Niccolini tornano a lavorare sui rapporti tra Puglia e Albania dopo la loro piece “Kater i rades”, l'affondamento di una bagnarola con ottantuno albanesi morti nella collisione con una motovedetta nostrana, adesso si concentrano sullo sbarco dei 20.000 nel marzo 1991. Si chiama “Non abbiate paura” come la frase che il sindaco di Brindisi disse all'epoca nell'appello ai suoi concittadini. Un monologo serrato e concitato, una vera e propria arringa da parte di un brindisino doc contro lo Stato Italiano, una denuncia contro la burocrazia del Palazzo romano, contro i ministeri e il cinismo dei suoi politici. Ne esce un quadro contraddittorio: da una parte si parla dell'integrazione e dell'assoluta pacificità di questi “invasori” in massa, dopotutto l'Albania non era nella comunità europea, che, con il ricatto di mettere a ferro e fuoco la città per fame e mancanza di un tetto, hanno tenuto in scacco una città, e dall'altra con l'invocazione di uno Stato forte che mandasse i militari per respingere questi disperati. Quindi accoglienza o respingimenti? Il testo oscilla pericolosamente tra queste due voglie contrapposte, tra questi due aspetti, tra la carezza e la forza, e l'indignazione verso Roma è facile così come è facile l'esaltazione della città di Brindisi che ha dato il suo enorme e pratico contributo agli albanesi pare, dalle parole di D'Elia (narratore di razza), più mossa dalla paura che dalla tenerezza.

Tommaso Chimenti 20/07/2021

ph: Elisa Nocentini, Luca Del Pia

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