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Hikikomori: la tragedia dell’isolamento e le colpe dei padri

Una stanza in disordine, con porte e finestre sbarrate. La stanza di un ragazzo. Pullula di oggetti: coperte colorate, il letto disfatto, libri di scuola sparsi qua e là, un’aria viziata dal sudore di lotte col proprio io. E poi, naturalmente, c’è il computer: presenza immancabile, personaggio chiave e discreto con il ticchettio dei tasti a figurare la sua appartenenza concreta e vitale al mondo.
Siamo in Giappone, la terra degli hikikomori, gli adolescenti che vivono chiusi in una stanza rifiutandosi di uscirne, isolati per scelta dal mondo del “carne ed ossa”, aggrappati alla digitalizzazione dei rapporti, alla volatilità delle risate e dei discorsi con amici e coetanei.01Hikikomori
Katia Ippaso in coppia con Marco Andreoli sceglie una terra lontana per trattare un tema universale e a noi in verità vicinissimo: il bullismo, la sopraffazione sui più deboli, su chi viene sgambettato da dietro e non ha i nervi e la forza morale per risollevarsi dall’onta di una vergogna. Il debole, in questo dramma da camera, è il giovane Figlio (Giulio Pranno), adolescente rabbioso e controverso che non vuole più andare a scuola né lavarsi, che rifiuta il cibo e intesse uno scontro violento con la propria madre, unica figura a varcare la soglia della Stanza. L’unica figura in carne ed ossa, se è vero che i rari momenti di quiete coincidono con le apparizioni buffe dello spirito del Nonno del ragazzo (ottimo e divertente Aldo De Martino), morto anni prima dopo esser stato abbandonato proprio tra le mura di quella stanza.
Il Giappone, con le sue storie di onore e apparenza, con i suoi rigidi schemi anaffettivi e repressivi, è luogo prediletto e naturale per inscenare una parabola di sopraffazione psicologica e umana. Lo aveva già analizzato Hirokazu Kore-Eda, regista nipponico, con il memorabile “Father & son”, vincitore del premio della Giuria a Cannes. Lì il Padre, uomo in carriera, vedeva frantumarsi i suoi schemi precostituiti apprendendo che il figlio di sei anni, educato e plasmato a propria immagine e somiglianza, in realtà non era il figlio biologico, ma era stato scambiato per errore alla nascita con un altro bambino.
02HikikomoriQui, il Padre è figura solo evocata, ma drammaticamente protagonista e colpevole. Ossessionato dal lavoro e dalla scalata sociale (la missione della vita di un buon giapponese), pretende perfezione, sorrisi smaglianti e cibi perfetti dalla moglie sull’orlo di una crisi di nervi (Luisa Marzotto). Il Figlio è la vittima sacrificale, l’anima costretta ad assorbire su di sé i conflitti e le ingiustizie patite dalle generazioni precedenti. Come se le colpe dei padri ricadessero sull’innocenza della prole, condannandola ad un destino tragico di implosione interiore che può avere come unica risposta l’isolamento virtuale e l’autocondanna alla galera. Questa condizione impregna massicciamente la recitazione dell’esordiente Giulio Pranno, capace di slanci e fremiti intensi e vigorosi, a volte troppo carichi, ma che lasciano presagire un potenziale interessante.
Arturo Armone Caruso porta in scena una tragedia della giovinezza che ha, nelle sue fratture e negli strappi nevrotici del suo protagonista, considerevoli dosi d’intensità emotiva (a volte incontrollata). A tessere le scene tra loro, la lettura inquietante e magnetica di Roberto Latini di alcuni brani de Le metamorfosi di Kafka, come a sussurrare un parallelismo tra Gregor Samsa che si trasforma in un insetto e il Figlio che si trasforma in un prigioniero della propria solitudine, ripudiato dai compagni di vita e dalla famiglia.

Simone Carella 21/12/2016

Foto: Manuela Giusto

Intervista a Katia Ippaso: https://www.recensito.net/rubriche/interviste/katia-ippaso-%E2%80%9Ccon-hikikomori-parlo-di-bullismo-e-di-inadeguatezza%E2%80%9D.html 

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