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"Donne che sognarono i cavalli", la sottomissione della parola al gesto

Le scatole di cartone che si ergono sulla scena diventano le mura molli del salotto. Una porta sigilla lo spazio, la possibile via d’uscita. Ancora sgombro è il tavolo dove il pranzo non si consuma, ma è continuamente richiamato. Gli attori aspettano in piedi, c’è chi ride sguaiatamente, chi resta nel proprio angolo, chi sbadiglia, chi beve del vino. Gli spettatori si siedono lì a pochi centimetri da loro, è una posizione voyeuristica. È claustrofobico. Si sente l’odore del sudore, si spiano così bene i loro tic e le spaventose esplosioni fisiche che li coinvolgono.
Tre fratelli con le mogli, ecco i protagonisti. Lucera è la più giovane, si rivolge direttamente al pubblico, finge che qualcuno possa udirla, esprime ciò che le passa per la mente. Le luci si abbassano, segno che le sue confessioni restano Donnechesognaronoicavalli1inascoltate dal resto della famiglia. Sono momenti brevi, piccoli monologhi. È alla ricerca della verità. Come sono morti i suoi genitori? Davvero i cavalli hanno sentito che la terra non era più in grado di sostenerli e si sono buttati in un burrone con quel carro su cui lei era ancora così piccola? L’ambiguità delle risposte che le sono state date dal marito non basta. Inizia a ricordare. Erano anni complicati per l’Argentina, il regime militare fece sparire migliaia di persone, chi si rivoltava era messo a tacere. Solo i bambini avevano la loro occasione di salvezza, lasciati nelle mani dei carnefici e da questi educati. Intanto i personaggi parlano, conversano, battibeccano, consumano parole. Ossessioni, dubbi e illusioni emergono chiaramente alimentando una realtà intrisa d’odio e rancori inespressi. Bettina, interpretata da Maria Pilar Perez Aspa, e Roger sono i proprietari di casa, lei è più vecchia di lui di venticinque anni, appare kafkiana e assurda nel suo parlare in continuazione di cucina, d’amore, di cose comuni. I suoi occhi restano chiusi pur di non vedere ciò che la vita le rivela. Reiner si contrappone a Ivan per una rabbia e una cattiveria viscerale. Valeria Angelozzi, nella parte della protagonista, stretta nella sua felpa bianca, è delicata e smarrita, al contrario di Ulrika, un’esuberante e appassionata Michela Atzeni.

Donne che sognarono i cavalli”, dell’argentino Daniel Veronese, portato in scena all’Angelo Mai, immagina un microcosmo gretto e volgare distrutto dall’inquietudine e dalla mancanza d’affetto. La regia di Roberto Rustioni esprime la visione di ciò che l’inferno deve essere e le poche certezze in cui ci muoviamo. Le donne fanno castelli in aria, incapaci di sostenere il peso dei pensieri con un bizzarro senso dell’umorismo ma la palude in cui annaspano peggiora. Lucera sospira, cerca di divincolarsi da quei lacci che non la mollano, come i protagonisti di Anton Checov. A differenza di “Zio Vanja”, dove un risveglio, una maggiore comprensione evita la morte, qui la morte diventa l’unico atto possibile e finale.

Francesca Fazioli 13/03/2017

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