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"Come un granello di sabbia": 36 anni urlando la propria innocenza

TINDARI - “Legandoti a un granello di sabbia, così tu nella nebbia più fuggir non potrai, ti voglio tenere legata” cantava Nico Fidenco nel 1961. E se non fosse una canzone d'amore, e se al posto del cantautore innamorato il protagonista di questa ballata fosse, in una forzatura letteraria-provocatoria, proprio lo Stato che può ingabbiarti e tenerti appeso, inchiodato ad un croce, stretto ad un sottile granello di sabbia, perché siamo pulviscolo nelle mani di un ingranaggio più grande di tutti noi, siamo minuscoli microbi dentro macchinazioni e macchinerie delle quali non capiamo i meccanismi e nei confronti dei quali risultiamo sempre schiacciati, perdenti, fragili? Ma la giustizia, anche se lenta, alla fine arriva: “Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti l'uguaglianza o la giustizia. gul-2.jpgSe sei un uomo, te la prendi” arringava Malcolm X. E quello di cui stiamo parlando è un Uomo, necessariamente con la maiuscola, perché non si è arreso, perché non è fuggito, perché non è scappato sapendo di essere nel giusto, che lottando se l'è presa la libertà, con i denti, a morsi. Quando entri nei meandri pericolosi da Castello kafkiano di carte bollate e burocrazia della Giustizia siamo tutti “Come un granello di sabbia”, infinitesimali, briciole, insetti sacrificabili.

E questo è il titolo dello spettacolo della compagnia Mana Chuma Teatro che da anni, a cavallo tra Messina e la Calabria (per loro il territorio è un unicum e si muovono indifferentemente nell'una e nell'altra provincia e regione) applica alla scena drammaturgie che analizzano il reale e approfondiscono il sociale. Come questa storia, quella di Giuseppe Gulotta, una storia siciliana, una storia tutta italiana, “è una storia di periferia, è una storia vestita di nero, è una storia da basso impero, è una storia mica male insabbiata, è una storia sbagliata, è una storia da carabinieri”, come intonava il sempre lucido De Andrè parlando di Pasolini. Una storia non soltanto di mala giustizia ma di uomini dello Stato deviati che hanno falsificato prove, depistato, fatto confessare con la tortura, trovato indizi inesistenti per condannare innocenti coprendo, secondo alcune teorie, Gladio, i Servizi Segreti, la Mafia. Siamo nel '76 quando due carabinieri vengono uccisi all'interno di una piccola caserma ad Alcamo, in provincia di Trapani. Si può immaginare che i colpevoli vadano cercati in certi ambienti, invece è molto più semplice, per chiudere il caso, EC4A7024 copia.jpgprendere cinque poveri ragazzi diciottenni e farne dei mostri quando con questa vicenda non avevano assolutamente niente a che fare. Giuseppe Gulotta è uno di loro; degli altri uno verrà suicidato (Pinelli docet), un altro morirà in carcere, due fuggono in Brasile, lui è rimasto 22 anni in carcere e per 36 ha avuto la spada di Damocle sulla testa, tra rinvii, arresti domiciliari, nuovi processi e revisioni, da parte della Giustizia. Entrato nelle pieghe dei tribunali e del carcere nel '76, grazie ad una confessione estorta con la violenza e a verbali taroccati, e uscito, assolto e innocente (e con un grosso risarcimento per i danni irreversibili subiti moralmente e materialmente con il quale ha messo in piedi una Fondazione per aiutare altre vittime di errori giudiziari) nel 2012. Neanche dieci anni fa. Derubricato con la dicitura “errore giudiziario”. E ancora, dopo processi riparatori e dopo che lo scandalo è stato certificato e acclarato, ancora alcuni lo ritengono complice e colpevole: “Se noi conosciamo che errare è dell'uomo non è crudeltà sovrumana la giustizia?” scriveva un illustre siciliano, Luigi Pirandello.

“Come un granello di sabbia” (arrivato ad oltre 100 repliche, vincitore di In-box '16 e Premio ANCT '19) di Massimo Barilla (anche poeta di valore) e Salvatore Arena con sulla scena quest'ultimo appassionato, che si dona impegnato e veemente, non è la semplice ricostruzione del caso cronologico degli eventi, che comunque avrebbe avuto una valenza positiva per far conoscere la storia incredibile di Gulotta, ma ci porta dentro i pensieri del protagonista, il suo intimo, le sue paure. Arena, potente, sudato e indagatore, si muove tra due installazioni da vivere e abitare (dell'artista Aldo Zucco), una sorta di poltrona arcaica a doppia seduta, quasi trono di una giustizia che giudica con due pesi e due misure, sovrastata da un'asta alla cui sommità si issa un megafono silente e muto che non annuncia la verità né, degregorianamente, che “la guerra è finita”. Alla sua destra una scultura antropoforma, tra un Pinocchio stilizzato (anche nella favola di Collodi d6f42f3ab235ffb539856471cee141ee_L.jpgc'erano i Carabinieri) e una strega da ardere sul rogo dell'Inquisizione, da bastonare in caso di tortura. Sembra forse di stare dentro una ricostruzione del G8, dentro la Diaz, l'interrogatorio a Stefano Cucchi, fino ad arrivare a Giulio Regeni. “Piove sul giusto e piove anche sull'ingiusto, ma sul giusto di più perché l'ingiusto gli ha rubato l'ombrello” spiegava Charles Bowen rendendo lampante che la legge è uguale per tutti ma per qualcuno un po' di più. Nel collegamento tra giustizia e teatro ci è tornato alla mente Donato Ungaro, il vigile urbano-giornalista (la sua storia l'ha raccontata il Teatro delle Albe nella piece “Va pensiero”) che, con le sue indagini, e per questo mobbizzato e licenziato, aveva fatto commissariare il comune di Brescello, sciolto per mafia.

Siamo nel meraviglioso anfiteatro di Tindari, del quarto secolo avanti Cristo, sotto il mare buio e i laghetti tra le dune, qualche luce di pescatori spunta in questo nero dove si mischiano cielo e acqua in una indefinita pennellata (o)scura. Le cicale non interrompono nemmeno per un attimo il loro canto che sembra un grido d'allarme. Sono giorni di scirocco, la temperatura non scende sotto i trenta gradi, l'Etna continua a gorgogliare rosso. Arena sale le scale in ferro e il rumore è quello classico delle porte che si chiudono e sbattono in carcere alle tue spalle, delle chiavi che girano e serrano il mondo là fuori con quello dentro. Un uomo solo sul palco come era un uomo solo Gulotta contro questa macchina che lo schiacciava a terra impotente. Il respiro è affannato. Comincia chiedendo alla platea: “Come si conta l'aria?” e lì, in quel preciso momento, ci sentiamo chiamati in causa, complici e giudici, come una giuria popolare che si è voltata dall'altra parte. Una storia dalla quale ne usciamo tutti un po' sconfitti perché il “lieto fine” ha portato via a quest'uomo, e alla sua famiglia, oltre trent'anni, proprio quando la vita stava per cominciare con i sogni di ragazzo, di futuro, di indipendenza, di libertà, lui che aveva fatto il concorso per entrare nella Guardia di Finanza. Come sarebbe cambiata la sua vita? Che cosa avrebbe fatto se non fosse caduto dentro la ragnatela appiccicosa delle maglie della giustizia? Gulotta, presente alla replica come alla maggior parte delle rappresentazioni, adesso ha voglia di raccontare a tutti la sua storia, ha scritto un libro, gira le scuole, ha una missione, è diventato icona di se stesso, portatore sano di valori, e ogni volta che la racconta si libera di un pezzetto di peso, quel macigno che comunque non andrà mai del tutto via dai suoi occhi, dalle sue mani che cercano un'altra sigaretta, quel peso che rimarrà nei sogni e negli incubi ma che, come veleno, deve essere espulso ogni giorno, goccia a goccia, per respirare in maniera più piena e limpida l'indomani. Gulotta adesso è un uomo pacificato e rasserenato ma ugualmente c068bb5b71ab289d2ccaa4708bea965824905f47-salvatore-arena-png-13381-1537708112.pngnon dimentica e non ha paura di rievocare quei traumi che lo hanno segnato. Nessuno si senta escluso, perché tutti noi un giorno potremmo trovarci nella stessa situazione, da innocenti. Inutile dire “a me non può capitare”, lo diceva anche Gulotta che faceva il muratore, tutta la vita davanti e aveva una vespa per andare a fare il bagno al mare. “Poiché non si poteva trovare la giustizia, si è inventato il potere10-autore-Marco-Costantino©-copia.jpgchiosava Blaise Pascal.

Giorgio Bocca sosteneva che “dove la giustizia è credibile anche l'omertà mafiosa scompare” ma in molte zone d'ombra del nostro Paese appunto, visto che la giustizia non è affatto credibile e la fiducia nelle istituzioni è pari a zero, l'omertà ha vittoria facile. Arena, in una prova faticosa fisicamente e moralmente, è doloroso, si fa maschera che si contrae e corpo sul quale sembrano sorgere le spine e la sindone, le stimmate e le ferite non rimarginabili, un corpo che si fa sofferenza, vissuta anche sulla sua pelle, la fa propria, si fa attraversare da questa luce. Se, come diceva una sentenza latina, “Le cose evidenti non hanno bisogno di alcuna prova” in questo caso invece è più applicabile il detto che “La giustizia funziona per i criminali, la condanna per le persone oneste”. Una vittoria, la sua per l'accertamento della verità, che ci lascia un velo di malinconia, una patina di triste pessimismo; cosa può fare un granello di fronte alla schiuma dell'onda? Gulotta ci saluta con una domanda alla quale non sappiamo rispondere: “Quanti come me aspettano giustizia dal carcere senza avere voce?”. Il silenzio di Tindari c'inghiotte.

Tommaso Chimenti 11/08/2021

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