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Contro ogni buonismo, D’Elia è Don Milani: amare Dio è fare

REGGIO EMILIA – “Ogni parola che non impari oggi è un calcio in culo domani” (Don Milani).
Scivolare nella cartolina patinata, nell'aureola santificatrice e beatizzante è molto semplice quando si trattano personaggi, in vita controversi e avversati, disconosciuti e contrastati, ma poi riesumati e messi nella bacheca a far sfoggio da morti, come Lorenzo Milani. Farlo diventare un'icona del Bene epurandone gli scatti d'ira o l'accesa dialettica furente e incandescente sarebbe stato fargli un torto, eliminare una parte essenziale del suo carattere sanguigno. Cadono quest'anno cinquant'anni dalla morte dell'educatore che aveva messo al servizio della piccola e povera comunità di Barbiana (nelle montagne sopra Barberino del Mugello) i suoi insegnamenti estrapolati non dai libri, che scriverà in futuro raccontando la sua disciplina, ma dalla realtà, dai fatti, delia1dalla vita terrena di tutti i giorni, dai banchi di scuola, dai problemi, dalla fame, dalle mancanze. E la penna di Francesco Niccolini e di Luigi D'Elia, anche in scena per questo caldo e appassionato monologo “Cammelli a Barbiana” (regia di Fabrizio Saccomanno; una replica strapiena in una splendida sala affrescata, produzione dei pugliesi Inti, che significa “sole” in spagnolo), visto all'interno del gonfio e composito programma di “Reggionarra”, tira proprio in questa direzione. Raccontare l'uomo.
Quasi a voler togliere quel “Don” e a farne, renderlo solo e soltanto, un uomo che, con le sue capacità e la sua caparbietà, ha fatto, detto ma soprattutto insegnato grazie alla tenacia e all'amore. Nato ricco, fiorentino e un po' scapestrato, in questo molto simile a San Francesco (ma con tratti anche vagamente caravaggeschi), aveva trovato nella fede la sua ragion d'essere, e in quel solco, in difesa degli ultimi e non cullato negli agi della porpora o degli ori cardinalizi, si è voluto spendere fino all'ultima goccia di sudore per gli altri, per chi non aveva, e non avrebbe mai avuto quelle possibilità, per gli esclusi, per gli ultimi della fila. Perché la fede per Lorenzo era una cosa tattile, materiale: costruire, fare, dare una mano, migliorare la propria cultura, diventare ogni giorno più consapevoli e quindi meno alla mercé dei ricchi, dei potenti. Il suo credo non era tanto Gesù ma l'emancipazione. Un prete di frontiera, un parroco comunista, come il delia2genovese don Andrea Gallo o il fiorentino don Andrea Bigalli, don Pino Puglisi, padre Zanotelli, don Luigi Ciotti, don Peppino Diana, don Alessandro Santoro e molti altri che stanno sulla strada e non chiusi in canonica, che si rendono disponibili al confronto e alla discussione, che trovi più facilmente nei cortei e a parlare con detenuti e prostitute che in sacrestia a pulire ostie. Un sacerdote impegnato in prima linea non per addormentare le coscienze dei fedeli nel sopruso e nella rassegnazione tacita ma cercando di risvegliarle. Che l'ignoranza ti fa carne da macello.
Il ruolo del don Abbondio di turno è finito da un pezzo; non c'è più spazio né bisogno per queste figure elitarie, gerarchiche, stucchevoli. Il laico Luigi D'Elia in qualche modo gli assomiglia per costanza e forza. Le parole di Milani (l'incontro tra tonaca e scarponi da montagna) sembrano sgorgare dalla sua voce con un passaggio diretto e il prete dei monti prende forma davanti a noi. D'Elia spiega, si agita, s'infervora, eccede, rientra, s'accende, s'accalora, spiega paziente per poi di nuovo salire di tono. È un'altalena, una montagnadelia3 russa. Iconografico e deciso anche il titolo, lontano dalla banalità delle celebrazioni e delle date rotonde: “Cammelli a Barbiana”. Certamente il riferimento va al cammello e alla cruna della metafora e parabola biblica ma la mente ci porta alla gobba dell'animale del deserto; è quello che ci interessa, la sacca, la cassaforte, il baule di conoscenza e sapienza che, giorno dopo giorno, dobbiamo, tutti, ma coloro che non sono abbienti ancora con più lena e forza, far lievitare, portare a frutto, mettere fieno in cascina, salvare la memoria, la speranza, gli interessi, i libri, le parole, le storie: in una espressione sola, non smettere mai di studiare né di aver voglia di imparare.
Lorenzo Milani, deceduto a poco più di quarant'anni e avversato in vita dalla Chiesa e dall'establishment del clero (Roncalli, il “Papa buono”, lo definì “inopportuno”, oppure epitetato con “L'aceto converte pochi”) tanto da essere spedito in maniera punitiva su per montagne sperdute, era più che altro un educatore che si rimboccava le maniche. Per questo è considerato un, testuale, “rompicoglioni”, un testardo, un prete rivoluzionario visto che la maggior parte degli altri suoi colleghi, allora come oggi, non si sporca(va)no le mani e per questo mal visto. Il controverso Milani, amato e odiato parimenti, nella sua burberità associabile a Padre Pio, era per gli ultimi, di qualsiasi colore e provenienza, per gli sconfitti, per i perdenti, per coloro che non hanno santi in Paradiso. La sua “lotta di classe” la combatte con l'insegnamento dell'italiano che limita l'esclusione sociale, con l'apertura di una scuola per fronteggiare la disparità di opportunità. Una scuola aperta dodici ore al giorno per 365 giorni l'anno dove si impara a capire il mondo, a farsi le domande, a cercare soluzioni invece che fermarsi alla prima spiegazione o lamentarsi in maniera vittimistica. Costruire una piscina per insegnare a nuotare ai ragazzi o osservare le stelle e l'universo con un telescopio, tenere lezioni di canto o francese, di pittura o fotografia, anche questo per don Milani era amore per Dio, amare il prossimo perché questo fosse sempre più formato e informato perché l'ignoranza danneggia soprattutto chi ne è affetto: “Amare come le maestre e le puttane”, diceva nelle sue svariate coloriture. “Amare senza paura”, continuava. D'Elia, a tratti maestro da libro Cuore, per un'ora di una narrazione fervida e spumosa, si somma a Milani, gli dà voce, si sostituisce con magia ed empatia, ha quella grazia affabile alla quale ti puoi affidare, ti puoi sciogliere perché sai di essere in buone mani. Con Lorenzo Milani (il “don” lo lasciamo ad altri) e con Luigi D'Elia.
“Su una parete della nostra scuola c'è scritto “I CARE”. E' il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “me ne importa, mi sta a cuore”. E' il contrario esatto del motto fascista “me ne frego”” (Lorenzo Milani).

Tommaso Chimenti 30/05/2017

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