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“Bestie di scena” di Emma Dante: la disarmante nudità come riscoperta dell’identità

Esistono corpi atletici, altri scheletrici. Qualcuno, invece, no. E ancora ulteriori corpi forti. Mentre altri non proprio. Infine possiamo trovare di fronte al nostro sguardo dei corpi nudi. Tutti. E se il teatro è il luogo per antonomasia del guardare – e farsi guardare – questo trova tutta la sua più piena verità in "Bestie di scena", ultimo lavoro di Emma Dante, dato – in prima nazionale – al Teatro Strehler di Milano – e co-prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo e Festival d’Avignon. Quelli che appariranno come dei fantasmini saranno appunto corpi prima ancora che anime, una fisicità che diventa simbolo di una condizione dell’individuo che si trova in qualche modo confinato all’interno di un ipotetico recinto, quella nera scena vuota tratto inconfondibile del teatro della regista palermitana. Non esiste un dentro né un fuori, nessun limite o quarta parete immaginaria, né ruoli (pre)definiti in questo Bestie di scena, soltanto un lungo e incessante momento risultante dalla somma delle singole situazioni che si susseguono, senza sosta, nel corso della rappresentazione.
E anche qui dobbiamo fare i conti con un altro termine – “rappresentazione” – che crea non pochi problemi: infatti, se noi spettatori rappresentiamo quella schiera di “guardoni” seduti in platea, non sarà così per i performer in scena, non-attori che sono prima di tutto loro stessi, semplicemente, ancora e sempre, dei corpi. Quando entriamo in sala già sono tutti lì sulle tavole del palcoscenico identificati subito come un gruppo di persone impegnato in un training fisico, l’allenamento/preparazione prima delle prove, dello spettacolo, del rito sacrificale, del darsi in pasto. I nostri occhi saranno così famelici, nel continuo tentativo di afferrare quell’estremità del filo di Arianna che subito ci conduca al significato. Ma come per loro nemmeno per noi esiste salvezza. Bestie2Si muovono, corrono, girano intorno alla scena, si alternano nel guidare gli esercizi. Sono comandi, danze, gesti, respiri, affanni e silenzi che scandiscono ritmicamente l’incedere dei passi verso quel segno che indicherà la svolta. Ed ecco che inizieranno a spogliarsi, svelando lentamente e gradualmente la pelle, il sudore, i nervi, ogni piccola parte del loro fisico indifeso e già stremato, fino al frontale schieramento sul proscenio. È imbarazzo quello che alle prime affiora in noi e anche in loro. Come dei contemporanei Adamo ed Eva cacciati dal paradiso che si vergognano, siamo già al di là del peccato originale che determina il coprirsi con le mani il proprio sesso, i seni. Gli occhi. Fermi, forse in attesa di una risposta. È un gioco a perdere quello cui assistiamo: perdita del ruolo, della vergogna, perdita delle certezze che viene ulteriormente stimolata da alcuni oggetti – «giocattoli» – vomitati in scena dalla quinte o dal soffitto – un bidoncino d’acqua, dei palloni, una bambolina, petardi, carillon, delle scope che scendono dall’alto come liane – che innescano processi primordiali e selvaggi di azione/reazione, di apprendimento – del “non si può fare altro che questo” –, o, se vogliamo, di ammaestramento; quelle relazioni carnali e precarie tutte da scoprire e inventare nella galoppante immaginazione, e anche illusione, in un «mondo sconosciuto e insidioso, pieno di pericoli e tentazioni, in cui diventa necessario prendersi cura uno dell’altro [...] per non perdersi» – come afferma la stessa Dante nelle note di regia. Nessuna parola è articolata e in fondo non ne sentiamo nemmeno l’urgenza guardando la potente espressività dei corpi di questi performer, che non si risparmiano senza sprecare alcun gesto e nessuno sguardo, nessun abbraccio e nessun ballo accompagnato dall’evergreen "Only you" dei The Platters – unico “vero suono organizzato”. E allora sei solo tu, corpo, il medium morto che deve essere rivitalizzato dall’interno, attraverso una sottrazione che mostri non solo la finitezza e la rinuncia ma soprattutto la forza in potenza di una costruzione, nella propria scelta, di un’identità. Cosa siamo diventati? Chi siamo? Come ci siamo ridotti a questo stato psico-fisico di alienazione? Ripartiamo da qui, dalla presenza reale, tangibile, ingombrante e necessaria del corpo, sembrano dire queste innocenti “bestie”. Creiamo un nuovo universo semantico nell’oasi in mezzo al deserto che è il palcoscenico, prolungato ipoteticamente alla sala, all’esterno del teatro, all’intera città, al mondo.
Bestie3Nonostante le molte critiche/accuse di violenza gratuita, vacuità estetica e atto denigratorio nei confronti degli attori mosse allo spettacolo, sono innegabili la portata critica e il coraggioso tentativo di Emma Dante d’indagare nuovamente – stavolta a un livello davvero superiore rispetto a tutto il cammino compiuto fino a questo momento (da ‘mPalermu a La scimia, da Le Pulle a Le sorelle Macaluso, fino a Operetta Burlesca) – la condizione dell’essere umano e del suo stare violentemente al mondo nella crudeltà del quotidiano – perdonando, ma non troppo, il reiterato auto-citazionismo, forse ineliminabile, nella misura in cui questo diventa cifra stilistica e mondo poetico (di)mostrato. Così, in un tempo sospeso che sembra infinito, spogliati di tutto, siamo testimoni del primo atto di ribellione di quelle bestie che stanno diventando umani: quei vestiti – legge, imposizione, conformismo, personaggio – che volano sulla scena per poi cadere a terra non vengono raccolti. Ognuno di loro si ri-presenta a noi, al nostro sguardo adesso molto meno giudicante e più tenero, coraggioso e pronto, nei corpi nudi e senza più vergogna. Per capire e capirsi. Noi siamo questo.

Marco La Placa 29/03/2017

Foto: Masiar Pasquali

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