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“L'Arte della Commedia” di Fausto Russo Alesi: l'eterno scontro tra Potere e Cultura

NAPOLI – E' un momento di grande riscoperta nazionale di Eduardo (a Napoli invece è costante imbattersi nei suoi testi e nuove messinscene); ultimamente ecco il “caso” eclatante di “Natale in casa Cupiello” di Interno 5 con burattini e marionette, il “Tavola tavola, chiodo chiodo” con un grandissimo Lino Musella, la pellicola “Qui rido io” con Servillo, il documentario “Il nostro Eduardo” o ancora “I fratelli De Filippo” di Sergio Rubini. Soltanto per parlare delle ultime, temporalmente, novità tra teatro e cinema. Anzi il mito, come è normale che sia, più passa il tempo e più s'accresce, s'ingigantisce, la matassa s'infittisce, le analisi si gonfiano, 01-Foto-Larte-della-commedia-ph-Anna-Camerlingo.jpegla letteratura attorno monta. Possiamo affermare che Eduardo, tra secoli, sarà il nostro corrispettivo per l'Inghilterra di Shakespeare o Cervantes per la Spagna. Eduardo italiano e non soltanto napoletano. Un testo tra i meno sperimentati, affrontati e masticati è “L'Arte della Commedia”, drammaturgia fortemente pirandelliana (furono amici e collaborarono anche nella stesura de “L'abito nuovo”) tutta giocata sul vero e sul falso, sul plausibile e sulla menzogna. Capocomico stavolta è il sempre coinvolgente Fausto Russo Alesi (prod. Teatro di Napoli, Teatro della Toscana, Elledieffe, molto lungo 2h 45') attorniato da un buon cast dove ognuno si ritaglia una bella fetta di luce propria.

Nel prologo ci arriva subito la voce di Eduardo (e siamo proprio dentro il “suo” San Ferdinando, caldissime le temperature al suo interno) che genera sempre quel brivido trasognante dell'essere dentro il tempo, la storia. Qualcuno dirà che “L'arte della commedia” sembra scritta oggi. Non è così o almeno i problemi dell'arte, della cultura, da sempre sono sempre gli stessi e si sono sempre scontrati con i governi, i partiti, le amministrazioni, i poteri di qualsiasi credo politico: la cultura come intrattenimento per non far pensare ai problemi quotidiani delle persone da una parte 2_Larte-della-commedia-di-Eduardo-De-Filippo-regia-Fausto-Russo-Alesi_ph-Anna-Camerlingo.jpg(il teatro d'impegno considerato inutile e obsoleto, financo dannoso) e dall'altra l'esigenza di approfondimento, di presa di posizione, di denuncia sociale, di scardinare temi e argomenti contemporanei. Una messinscena cupa, dalle ombre dure e solide, con dei chiaroscuri densi e pastosi (luci di Max Mugnai) con una scena potente e semplice (di Marco Rossi) con un telaio, una struttura di porta, quasi una fortezza sumera, dapprima a terra, nella costruzione teatrale e nel disvelamento della macchineria, poi issata nella sua magnificenza e altezza (con la polvere alzata simbolo di negligenza, di vecchiezza, dello stantio delle idee) e infine caduta nuovamente nel sottolineare la finzione del teatro che, proprio in quanto non reale, riesce a toccare più in profondità l'essenza delle cose e dei concetti esaltandoli, illuminandoli.

Il protagonista (Russo Alesi, dalle mille sfumature, è Oreste Campese) è un attore e regista di una compagnia teatrale, “Duemila anni di teatro possono entrare in pochi metri quadrati di palcoscenico”, possiamo dire ruolo autobiografico nel quale riconosciamo la fatica di Eduardo stesso durante la sua esistenza. Ma tutto il testo è una lectio artistica, ma anche imprenditoriale, politica, amministrativa, gestionale, sull'universo teatrale; e niente è cambiato con i finanziamenti, con i fondi destinati, con le esigenze degli uffici ingessati e impomatati e dei burocrati macchinosi che si scontrano con quelle fattive degli artisti. Il primo atto ruota tutto attorno all'incontro, ora docile e lezioso e amichevole, adesso scontro, acido, rancoroso, acre e pungente, tra il regista e il prefetto nello studio di quest'ultimo. Un uomo (qui fa le veci dello8c5dfb26c2d12889e7df5f89bdc6d093_XL.jpg Stato, nella sineddoche di una parte per il tutto) intento agli incartamenti e ai timbri più che al pensiero. I due si annusano e poi si azzuffano, s'azzannano proprio per l'incomprensibilità delle richieste altrui e l'incomunicabilità tra le istanze opposte che non riescono a collimare né a trovare una sintesi utile a entrambe le parti pungolati da temi come crisi teatrale e repertorio, scivolando attorno alla frase “L'attore svolge un ruolo importante per il suo Paese?”. Diventa un ring che si declina ora in una confessione adesso in un interrogatorio (il prefetto è un Alex Cendron capace nei vari registri). E Campese parla con le parole di un Eduardo che ha sempre combattuto per queste stesse esigenze e appelli, per la dignità del lavoro, per una consapevolezza più alta del mestiere dell'attore. Affiorano i termini “censura” e “autocensura” (buone in qualsiasi epoca) nella collisione atavica tra cultura e potere perché, proprio per sua stessa incarnazione, la cultura non può andare a braccetto con il potere altrimenti diventa megafono e propaganda: “Gli attori sono in cerca di autorità e non personaggi in cerca d'autore”.

Se la prima parte è appunto fosca e a tratti lugubre, è nella seconda che la commedia si esalta con fuochi d'artificio e brillantezza. Il nodo sta tutto nella “minaccia” che Campese formula al prefetto: avrebbe mandato a chiedere udienza al burocrate, facendogli perdere tempo prezioso e rallentando il Russo-Alesi.jpglavoro del suo ufficio, attori travestiti nei più disparati mestieri e ruoli e l'istituzione non avrebbe capito se fossero stati effettivamente chi dicevano di essere o se appunto teatranti ad impersonare svariate professioni. Torna qui prepotente il tema del vero e del falso (centrale nel teatro concettualmente, e cardine in quello di Pirandello), del reale o della finzione. In questo secondo atto spiccano il medico (Filippo Luna frizzante) e il parroco (Gennaro De Sia fortissimo) in due scene scintillanti, esaltanti, effervescenti dove la commedia diventa tragedia e il tutto ha il sapore amarognolo della farsa e della sconfitta. E' l'ambiguità del teatro, nel suo profondo essere e nella sua stessa costituzione, che non può essere categorizzabile e incasellabile dal potere di turno, è la sua sfuggente imprendibilità che rende le istituzioni fragili al suo cospetto. E forse, paradossalmente, è anche giusta questa dicotomia, questa acredine, questa distanza. E' Il Re che se non può controllare il giullare lo manda al patibolo. Condannando però se stesso e la sua inadeguatezza e pochezza. Perché nuovi giullari nasceranno. Perché il teatro è morto talmente tante volte che sa come resuscitare: “Mi hanno sepolto ma quello che non sapevano è che io sono un seme”.

Tommaso Chimenti 25/02/2023

Foto: Anna Camerlingo

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