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Il ritorno alla Natura insieme a Carolyn Carlson: "Immersion", "Dialogue with Rothko" e "Now" in live streaming per festeggiare la Giornata mondiale della danza 2020

Dopo l’opera lirica, il cinema, le maratone di lettura e il teatro, in questa quarantena imposta dall’emergenza Covid-19 è il momento di dedicarsi alla danza. Si avverte, anche solo formulando tale pensiero, un netto e angoscioso contrasto tra i corpi costretti e contratti dei reclusi in casa e quelli liberi di esprimersi, fino anche alle estreme conseguenze, di danzatori e performer che di spazi ne creano sempre nuovi e diversi. La libertà ci separa.
Anche le figlie e i figli di Tersicore, la musa ellenica di quest’arte, sono però stati colpiti dalla chiusura dei luoghi a loro dedicati (scuole, palestre, teatri) in ottemperanza alle misure di contenimento del contagio. Per questo in occasione della Giornata mondiale della danza, ricorrenza istituita dall’International Dance Council dell’Unesco nel 1982, che cade il 29 aprile – data di nascita del danzatore e coreografo ritenuto il padre del balletto moderno, il francese Jean-Georges Noverre – i ‘festeggiamenti’ si sono trasferiti dai palcoscenici reali a quelli digitali di Internet, sia con contenuti inediti che con la riproposizione di opere e nomi classici, moderni e contemporanei.
Emilia Romagna Creativa, il portale curato dall’Assessorato alla cultura della Regione Emilia-Romagna, ha deciso di unirsi alle celebrazioni dell’International Dance Day mettendo in programma nel palinsesto legato all’hashtag #laculturanonsiferma, visibile anche sul canale Youtube di LepidaTv, lo streaming di diversi spettacoli come “Rocco” (2011) di Emio Greco/Pieter Scholten, i cavalli di battaglia dei ballerini en travesti della compagnia Les Ballets Trockadero de Montecarlo e tre lavori della danzatrice e coreografa statunitense Carolyn Carlson, Leone d'oro alla Carriera nel 2006.
Recensito ha deciso di scrivere di quest’ultima, i lavori in questione sono i due assolo “Immersion” (2010), “Dialogue with Rothko” (2013) e la sua coreografia per la Carolyn Carlson Company al Théâtre National di Chaillot a Parigi “Now”. Una trilogia di opere di modern dance profondamente diverse e coerenti nel percorso artistico della “Water Lady”, che è in fondo un discorso poetico, etico e spirituale: recuperare il nostro rapporto di filiazione diretta con la Natura e i suoi elementi, lasciandoci finalmente alle spalle l’illusione delle “magnifiche sorti e progressive” che hanno portato all’avvelenamento del pianeta e all’ingegnerizzazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e sintonizzarci nuovamente con la nostra essenza di esseri umani fatta di emozioni e sentimenti, da decenni anestetizzata tramite un’euforica alienazione.

La danza della pioggia
Una delle sua pièce più celebri, che le è valsa l’appellativo di “signora dell’acqua”, è l’assolo “Immersion”, risalente al 2010. Un’esperienza espressiva in cerca dell’immedesimazione con l’elemento naturale che racchiude le massime semplicità e purezza attuata con movimenti sinuosi e intensi, specchio di un rivolo d’acqua che scorre morbido, cambiando continuamente forma in base al terreno, inarrestabile. Una lama blu elettrico corre per il perimetro del palco, unica fonte di luce in una scena buia come potrebbe essere un fondale oceanico o una notte senza luna nascosta da nere nubi cariche di pioggia. Proprio un rumore di acqua scrosciante è elemento sonoro e insieme co-protagonista del numero. Dopo un crescendo di ripetizione e accumulazione sempre più intenso e pulsante, che impegna busto e arti superiori, la danzatrice americana lascia la forma liquida tornando ad assumere quella solida. Il legame con l’elemento è però inscindibile perché senza di esso non c’è vita e così, come una misteriosa sacerdotessa di un ancestrale culto dimenticato, Carlson si offre alla pioggia. La accoglie sul volto, sul collo, sul petto e sulle mani, poi celebra un’eucarestia liquida. La sacerdotessa alza al cielo un piccolo mortaio, raccogliendo l’acqua e facendola così benedire. Il ringraziamento di un fedele a una divinità non eterna, bensì agonizzante per il consumo utilitaristico e irrispettoso che ne fa l’umana specie.

Sagoma su tela
C’è qualcosa che accomuna un violoncellista, un pittore e Carolyn Carlson. Tutti e tre sono in grado di dare vita all’arte con l’uso delle mani. Un movimento del polso per dare un pennellata, per suonare le corde con l’archetto, per danzare. Quest’unità è racchiusa in “Dialogue with Rothko”, pezzo nato dalla scrittura del libro di riflessioni sul pittore dell’espressionismo astratto Mark Rothko, Dialogue avec Rothko: Une lecture de Untitled (Black, Red over Black on Rd 1964), dove le due arti, danza e pittura, accompagnate dalla terza, affrontano insieme un viaggio di gesti e colori. Tinte nette, senza sfumature, che racchiudono ora la totalità dei colori ora la loro assenza: bianco e nero. In scena c’è Carlson, mentre Rothko è il genius loci sulla tela, nel titolo e nell’atmosfera della stanza. Ma non sono più se stessi, con le proprie generalità e le proprie creazioni. Sono infatti tutti i danzatori e tutti i pittori di ogni tempo, legati da una simbiosi che è all’origine di tutte le arti: quella che porta l’uomo oltre l’uomo, in una dimensione trascendente. Così Carlson è insieme pittrice, con le braccia che mutano in pennelli, e tela. Appare vestita di bianco, come un foglio ancora vergine in attesa di essere fecondato, e porta con sé due panni immacolati. Mentre la voce registrata della donna legge alcuni passi del libro e se ne ode un’altra maschile, la creazione-trasformazione ha inizio sostenuta dalle note scure del violoncello, appena visibile in penombra, e da basi ritmiche percussive basse. Sul tavolo dal lavoro da artista figurativo c’è un proiettore che lei usa per mostrare, su uno dei due teloni, le opere elementari e profonde di Rothko, dove la massima e spoglia semplicità colorista – potente per il forte contrasto cromatico – è sintomo di uno scavo intimo invece radicale. Braccia, polsi e mani sono l’attrazione principale dell’assolo, e compiono gesti che vibrano di sacralità, perché la creazione è un atto sacro. In un continuo srotolarsi di ripetizione e accumulazione, reso dinamico dall’alternarsi di ritmi ora serrati ora dilatati, Carlson va al tavolino, lo pulisce, danza colpi di pennello. Passata dopo passata, la luce si fa buia e la tela più scura, il vestito ora è nero e cambiano anche i guanti che indossa per proteggersi le mani dalle tempere. Le evoluzioni del polso si fanno più veloci, seguono quelle dell’archetto, nel furore del momento creativo in cui l’artista è attraversato dall’ispirazione che reclama di venire al mondo. Coi suoi movimenti, la danzatrice si frappone fra il proiettore e il telone diventando così sagoma su tela, elemento dell’opera d’arte, soggetto creatore e oggetto creato insieme. Diventa quadro: sotto il vestito nero, indossa un pantalone rosso. Black over Red. Nuovo passaggio di ripetizione e variazione, nuova tela di Rothko, “Blues Eyes”. Negli Stati Uniti blues descrive un stato d’animo profondamente triste, da cui non c’è scampo, in cui ogni senso e ogni valore si perdono. La depressione si è portata via Rothko, morto suicida nel 1970. E forse proprio condizione priva di senso è rappresentata da quel groviglio inestricabile di lettere e simboli dove le parole sono ormai indistinguibili, non più in grado di dire nulla, frutto della sovrapposizione di tanti fogli di carta densi di scrittura che Carlson proietta sul telone mettendoli uno sopra l’altro. Il violoncello suona solenne e lugubre, come una marcia funebre. Qual è il rumore del nero sul rosso? Si chiede Carlson. Si risponde. Questo, questo.

Ritorno alla casa madre: Gaia
“Home is where heart is”, recita un proverbio inglese. Solitamente si traduce con “la casa è la dove sono le persone e le cose che amiamo”. Il luogo fisico che abitiamo si trasforma da dimora in casa quando noi la sentiamo come tale, perché in essa si realizzano una serie di rapporti di cura e attenzione reciproca. Non è un luogo pre-definito, ma un’idea che si forma in noi quando nell’animo ci risuona qualcosa. Eppure si continua a pensare alle quattro mura, quando si pensa alla 'casa', dimenticandoci che tutti quanti, uomini donne giovani vecchi sani e malati, abitiamo la stessa grande casa comune. Se ne ricordano invece, Carolyn Carlson e la sua multietnica compagnia di sette elementi che per due anni è stata residente al Théâtre national de Chaillot di Parigi, dove hanno debuttato con “Now” il 6 novembre 2014. Una pièce frutto di una grande libertà creativa e dalla commistione di diversi linguaggi, dalla danza contemporanea a echi di “Watermotor” di Trisha Brown fino alle arti marziali, scaturita da una riflessione su come il nostro mondo interiore percepisca quello esteriore e sulla relazione, costruttiva o distruttiva, che si instaura tra i due. Un’idea che ha preso piede dal saggio “La poetica dello spazio” del 1957 dell'epistemologo francese Gaston Bachelard, un’indagine su come gli spazi e le azioni del quotidiano siano forieri di ispirazione artistica, e da un dibattito tra i membri della compagnia sull’ecocidio perpetrato dall’uomo. La “poesia visuale” di Carlson, così la coreografa definisce le sue creazioni, che lei spiega nascere da una visione e non dalle parole, si fa così meditazione universale sul percorso dell’uomo nel mondo e al contatto tra la sua intimità e l’immensità del cosmo in cui è di passaggio. Su musiche inedite del compositore René Aubry, da lungo tempo collaboratore della Carlson, che spaziano da una dolente melodia dal sapore anni Venti alla musica orientale fino all’elettronica, attraversando epoche e costumi, i danzatori intonano una sinfonia di movimenti fatta di gesti ampi e forti o scattanti e leggeri. La scenografia è un grande telo sul fondo del palco e due teli, più sottili, di quinta, su cui vengono proiettate immagini di abitazioni mentre loro, tre donne e quattro uomini, spostano tavolini, sedie – tanto da interrogarsi se sia un riferimento a “Cafe Müller” di Pina Bausch – e porte, costruiscono una casa fatta di scotch per pacchi. Le tre donne, casalinghe oppresse, realizzano una grottesca caricatura di gesti quotidiani, mentre gli uomini si muovo coordinati come in una catena di montaggio, con gesti forti e vigorosi, sostenuti dai rumori di un luogo di lavoro. Un ballerino declama parole che sanno di ottimismo cieco e fanatico, “Futuro” e “Avanti”, mentre un altro narra e riflette, rassicurante, tutte le qualità che rendono, agli occhi del piccolo animale uomo civilizzato, cara la casa. Luogo che, secondo Bachelard, identifichiamo con il riparo e la stabilità. Quest’ultima, per l’essere umano che non si cura della Natura che lo ha generato ma si preoccupa di difendere se stesso, i propri cari e le sue proprietà materiali è sicurezza, comodità, famiglia, condivisione. Ansie e speranze genuine, interclassiste e intergenerazionali, legittime, che si fanno più perverse quando dal benessere si passa al consumismo. A quel punto, tutta la felicità che la ricchezza può acquistare – l’amore, il sorriso, l’armonia – è ancora pura o si è corrotta e ciò che ne resta è solo una menzogna che ci raccontiamo affinché il sistema tenga? Il crescendo che sfocia nell’urlo non offre una risposta. La casa viene tirata giù, ridotta a simulacro impotente di vecchia beatitudine, la civiltà è crollata sotto il suo stesso peso. La voce narrante ci offre una nuova rivelazione, un cambio di paradigma che evoca la filosofia orientale: il mio corpo è la mia casa. Il ritorno a se stessi, al proprio mondo interiore, è la materia per costruire un nuovo rapporto con il mondo, basato sulla conoscenza intima, profonda e quieta. Un ritorno che ci riporta alla Natura e alle sue leggi non scritte, che sono nel cielo stellato sopra di noi e negli steli di fili d’erba sotto di noi. Il metaforico Eden post-distruzione che si abita al ritorno allo stato di natura, è descritto come un’orchestra tutta in armonia. “Un giardino catartico”, spiega la voce narrante e danzante, che perdona le colpe del passato e concede l'occasione di una nuova vita. I costumi non sono più vestiti, gli uomini sono a torso nudo e le donne sono coperte da indumenti naturalistici color foglie d’autunno. In una scena ricca di salti, prese e movimenti l’ensemble danza lo stormire delle fronde e il vento che scuote i rami e le foglie degli alberi. Poi si scende dalle cime arboree al suolo, con l’assolo di Yutaka Nakata fatto di movimenti ampi e orizzontali che cerca il contatto con il terreno, con la terra generatrice. Sui teli sullo sfondo, immagini di rigogliose e scure foreste. Il ciclo di rigenerazione termina e l’eterno ritorno dell’uguale ci porta avanti, o indietro, ed ecco comparire l’immagine di un grande orologio con le sue lancette inarrestabili. Il ticchettio è forte, una pulsazione che dà il tempo come il beat di una musica. La voce narrante-danzante si muove a scatti, i performer riportano in scena gli oggetti quotidiani, casalinghi, come il tavolino e le sedie ipoteticamente ‘bauschiane’, e tutto riprende dall’inizio. “Noi ripetiamo le cose per infinite volte”, ci viene rivelato in un altro riferimento a La poetica dello spazio del saggista francese. Il filosofa sosteneva che prendersi cura di qualcosa sia ogni volta ripetizione del lavoro da cui è originata la cosa stessa, una nuova continua creazione. L’urlo che in precedenza aveva lasciato una domanda in sospeso assume un senso più definito, quel “siamo felici nella nostra casa, non litighiamo! Siate felici! Condividete! Sorridete!” è un appello alla nostra umanità, un invito ad annullare le distanza che finora, nell’intimo, abbiamo voluto ci tenessero lontani gli uni dagli altri, a prenderci cura come fratelli e sorelle, ad amare e rispettare la grande Casa di tutti. Anche perché non abbiamo alternative di fronte agli effetti sempre più manifesti ed estremi del cambiamento climatico per cui urge cambiare sistema produttivo e moderare i consumi, alla regressione della vita civile di fronte all’incubo virale e alla marea della diseguaglianza che sale a livelli critici persino nel cosiddetto Primo mondo.


Il corpo di ballo della Carolyn Carson Company: Constantine Baecher, Juha Marsalo, Céline Maufroid, Riccardo Meneghini, Yutaka Nakata, Sara Orselli, Sara Simeoni

Lorenzo Cipolla

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